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lunedì 23 agosto 2021

L'Alessandrina. Storia di casini

Di questi tempi pare che di sesso non si possa fare a meno di infilarne a bizzeffe in qualsiasi storiella, per quanto banale. Tonnellate di masturbazione, quintali di fellazione. Va be'. A me molto male incolse quando, in un romanzo perbene dei primi anni Novanta, mi permisi di dissertare sulle case chiuse d'Italia (prima che diventassero "aperte" ovvero fossero chiuse sul serio). Che scandalo, che vergogna, soprattutto  le signore lettrici, indignate, furibonde…

P.S. Nella foto il portone di quello che era il Dollaro, a Como, dove ho lasciato distrattamente la verginità, nel 1957. Per 1000 lire…

Dal mio Due bellissime signore (ovvero: Destino, 2a parte)

« In un mese imprecisato del 1510 il signor Pietro Boldoni, borghese di Bellano, località famosa per l’attrazione rappresentata dall’Orrido, aveva portato a Como un “molendinum seu turnum”, ovvero, insomma, un mulino da seta, dando avvio alla prima forma più o meno organizzata di produzione del prezioso tessuto nella zona. Perciò, a far tempo dal 1887, in quanto “introduttore dell’arte serica”, la città, grata, gli aveva dedicato quella che fino ad allora si era chiamata Contrada dei Tre Prestini alle Cinque Vie, o anche Contrada della Virtù: una via che a un capo si apriva in uno slargo. Via Boldoni e, per estensione, piazzetta Boldoni.

Alla famiglia dei nobili Volpi, invece, la città era grata per motivi di storico prestigio. Un Girolamo cosmografo e poeta. Un Giovanni Antonio vescovo e inviato al Concilio di Trento. Un Ulpiano arcivescovo di Rieti e nunzio apostolico. Un Giampietro vescovo di Novara. Gente di una pietas a prova di bomba, a cui la città aveva ritenuto suo preciso e pio dovere dedicare la via nota un tempo come “Contrada dell’Onor Patrio” e poi “della Caserma Volpi”.

Bene: chi alla metà del Ventesimo secolo saliva dal lago verso San Fedele e Portatorre attraverso via Boldoni, se appena appena deviava distrattamente un po’ sulla sinistra entrava in via Volpi già Contrada Caserma già Contrada dell’Onor Patrio. Dove, in spregio a ogni nobile pietas e persino prudenza, ai civici numeri 5 e 7 aveva sede un onorato casino. Un postribolo, per quanto elegante. Un lupanare, per quanto ben frequentato. Proprio nella via dei piissimi Volpi? Chissà perché. Forse in considerazione degli antichi nomi della suddetta via Volpi e del fatto che chi sta in Caserma, avendo poco tempo da perdere poiché deve dedicarsi giorno e notte all’Onor Patrio, ha frequentemente bisogno di rapido ed esperto sollievo per la carne.

Insomma: era in questo onorato locale che concedeva i propri favori secondo tariffario l’Alessandrina. Rispettabile e apprezzata cortigiana che aveva saputo non buttarsi via. Eh, no. Al contrario: aveva saputo trattarsi bene. Bastava fare i conti. Dal giorno in cui aveva messo piede per la prima volta in una “casa” erano passati poco più di vent’anni. E il suo unico figlio, luce dei suoi occhi, ne aveva appena compiuti ventuno. Dunque non ci sarebbe stato da offendersi se qualcuno avesse detto che non era più una bambina. Sarebbe stato poco signore, un villano da trattare con le pinze, ma niente di più.

Era ancora una gran bella donna. Piaceva. Proprio magra non era mai stata, ma nemmeno grassa. Aveva le sue belle forme, ben conservate. Quando si metteva lì sul suo scranno, drappeggiata come le avevano insegnato due decenni di onesta professione, in modo da lasciar vedere e non vedere, gli uomini se la mangiavano ancora con gli occhi.

Perciò davanti a lei non si era mai aperta — né mai si sarebbe aperta — la fossa dei leoni. Il giro delle marchette a mille lire, via uno avanti l’altro. Il girone d’inferno delle case da battaglia. Militari di leva, teppa, apprendisti magnani, bifolchi che il sapone non sapevano nemmeno che cosa fosse. Il Poslaghetto, a Milano. Lo Squarciafico, a Genova. Via dell’Amorino, a Firenze. Più in giù, poi, chissà che cosa c’era. Quaranta al giorno, un colpo di straccio e via. Brrr. Per le povere disgraziate che precipitavano fino a lì in caduta libera non c’era salvezza. Piano piano finivano in Grecia, in Turchia, in Libano, in Egitto. Se non marcivano del tutto strada facendo.

Lei, invece, Elvira Cavaglia, detta l’Alessandrina per via della città d’origine — che non era affatto in Egitto ma in Piemonte —, dopo vent’anni di impeccabile servizio era ancora lì, nel giro alto. Nessuno aveva mai avuto motivo di lamentarsi di lei. Anzi, grazie a Dio i regalini extra che era riuscita a vendere o a nascondere in banca le avevano consentito di tirare grande il ragazzo senza che capisse niente. Era per lui, nato senza il cognome di un padre, che era stata costretta a fare il più antico dei mestieri.

Comunque il futuro si presentava tranquillo. Esentato dal servizio militare, il ragazzo lavorava in fabbrica già da un bel po’, e fra qualche anno lei avrebbe potuto raggiungerlo, ritirarsi, godersi l’ultimo scampolo di vita prima della vecchiaia e di quello che inevitabilmente la segue.

Per intanto continuava con il suo giro alto. A Milano il Disciplini, con gli alti troni dorati studiati apposta per procedere con comodo a certi servizi per così dire di bocca buona. Oppure il San Pietro all’Orto, con i suoi specchi a uso dei signori che più che fare gli piace guardare. O il Porlezza, con tutta la sua gente “su”: giornalisti, letterati, pittori. O l’Alberto Mario, quando aveva avuto bisogno di rifarsi i denti: la direzione, che le voleva sempre impeccabili, aiutava le signorine a pagarsi l’odontoiatra.

A Pavia il Grotta Azzurra, sempre pieno di studentelli universitari con tanta fame e pochi soldi, che le ricordavano il suo ragazzo, nascosto su ad Alpignano dagli zii, e la riempivano di istinti materni. Certe volte, con loro, non stava a guardare troppo il tempo, così poi la signora la sgridava. Ma di rado. Erano talmente spaventati, poveri ragazzi, che di solito in un momento era fatta. Qualche volta, però, avevano dei problemi, e bisognava avere un po’ di pazienza. Poi, appena fatto, scappavano come se avessero visto il diavolo sbucare di punto in bianco dal bidet appoggiato sul suo treppiede di metallo.

A Genova il Castagna. A Parma il Borgo Tasso. A Firenze la Rina.

E così via. Più giù di Firenze, comunque, l’Alessandrina non aveva mai avuto bisogno di andare, anche se per qualche tempo, agli inizi della carriera, un certo individuo aveva fatto di tutto per convincerla ad andare in una casa di Bari, dove, secondo lui, a ogni cambio di quindicina arrivava nientemeno che il re d’Albania con una valigetta piena di gioielli. Al Villino delle Rose. Una marchetta, quindici lire.

Bari? Con tutto il rispetto, per chi l’aveva presa quel margniffo? Dove poteva mai essere l’Albania? Che balla! Per fortuna gliel’avevano tolto di mezzo, che cominciava a farsi un po’ soffocante. Anzi, si era tolto di mezzo da solo. Storie di coltelli, roba con cui lei non aveva mai voluto avere niente a che fare. Il suo amore ce l’aveva già, ed era il figlio che cresceva ad Alpignano. Non era mai andata neanche a Roma, per quanto l’avessero richiesta un’infinità di volte dall”’Avignonese”. No, niente, non poteva allontanarsi troppo. E non voleva nemmeno.

Perciò adesso era lì, al Dollaro di Como, in via Volpi. Un locale di prim’ordine. Discreto, elegante, gente fine, signoroni svizzeri. Non come i posti dove poteva anche capitare di morire d’infarto durante il lavoro, quelli nascosti nel vicolo nientemeno che giù davanti al Duomo, pieni di gente senza rispetto. In Duomo lei ci andava la domenica mattina prestissimo, prima che arrivasse gente, entrando di sbieco dalla porta della rana, dalla parte del Bar Argentino, la testa quasi completamente coperta da un bel foulard scuro di seta, a pregare Dio che tenesse un occhio di riguardo sul ragazzo che cresceva, che gli desse i mezzi di andare in case perbene, visto che era nato maschio e che quindi certe cose doveva per forza (e per salute) farle anche prima di sposarsi. Certo, non case signorili come quelle in cui lavorava lei, ma almeno pulite. Oneste. Non in certe stalle, povera anima.

In altre città, Dio andava a pregarlo in Santa Maria delle Grazie, in Santa Maria del Carmine, in Santa Maria di Carignano, alla Madonna della Steccata.

Chiamandosi di secondo nome Maria, era naturale che Elvira Cavaglia avesse una predilezione per le chiese dedicate alla madre di Gesù, donna poco fortunata anche lei, ma non è che ce ne fossero sempre a disposizione dappertutto. A Pavia, per esempio, andava a San Pietro in Ciel d’Oro. In Piemonte, invece, per evidenti motivi, non andava mai. Né in chiesa né a lavorare. Ci mancava altro che, presa la paga settimanale e messo il vestito buono, al ragazzo venisse voglia di mettere il naso, tanto per dare un’occhiata, al Babi di Porta Palazzo, diciamo, e ce la trovasse lì.

Comunque fosse, fino a quel momento Dio l’aveva ascoltata. Non era stato Lui, in definitiva, a dire che non bisogna tirare neanche la prima pietra, che la vita e il peccato sono cose difficili da farci i conti, che a sbagliare si fa in fretta, mentre non sempre è possibile trovare un rimedio così sui due piedi?

Lei Lo pregava, e Lui ascoltava. Dopo vent’anni di onesta professione in giro per quelle case onorate, qualche diritto l’Alessandrina se l’era conquistato. Se non altro quello di andare in chiesa da sola, la domenica mattina presto, la faccia nascosta con cura per non offendere nessuno.

La donna sollevò il ventaglio e si fece stancamente aria, quindi, generosa, ritirò fino poco sotto l’inguine il velo che le copriva le cosce, a beneficio dei guardoni. Sotto, non portava niente.

Pomeriggio di fiacca. Gente che aveva voglia soltanto di fare flanella. Un ragazzetto terrorizzato, seduto in fondo al lungo divano centrale, quasi abbracciato al suo pacco di libri di scuola legati con una cinghia verde di gomma ridotta a un filo. Doveva avere compiuto diciott’anni quel giorno ed eccolo lì, puntuale come un cronometro svizzero, oltre che regolarmente con il cuore in gola. Ma che conforto potevano dargli i libri che si schiacciava sul ventre? Gli fece un sorriso. «Andiamo?», accennò appena con le labbra, piegando la testa di lato in direzione della scala.

L’espressione del ragazzo, da spaventata si fece infelice. Si alzò di scatto e si avviò per uscire. Una volta che si fu tolti i libri dal grembo, si vide chiaramente che era messo bene. I pantaloni lunghi erano strettissimi. Forse ancora i primi che gli avevano messo. Gli altri, quelli nuovi che gli erano sicuramente stati regalati per i diciotto anni, li avrebbe inaugurati la domenica seguente. E prima o poi sarebbe ricomparso sfoggiandoli, un po’ meno terrorizzato, più scafato, già sentendosi un veterano, magari addirittura con addosso un completo elegante, o in compagnia di un coetaneo, poveri verginelli. L’Alessandrina lo seguì con uno sguardo affettuoso fino alla porta, augurandosi che anche il suo ragazzo, a Torino, trovasse una donna comprensiva come lei.

Gli altri rimasero tutti a sedere, immobili come tante statue di gesso. Figuranti. Gente da bar. Pidocchietti da sala corse. Mezze tacche del contrabbando con la Svizzera. Uomini che di giorno non avevano niente di preciso da fare. Tra loro, nemmeno uno svizzero dal bel portafoglio pieno di franchetti. Guardavano. Guardavano. Nell’aria non si sentiva volare una mosca. Il silenzio era rotto soltanto dal fruscio dei ventagli e dei veli, da qualche sbadiglio represso. Dall’angolo normalmente occupato dalla Tosca si stava diffondendo un odore pulito di acetone. Le signorine ospiti del Dollaro si stavano annoiando. E, come insegnava l’esperienza, le cose non potevano andare avanti così ancora per molto. La signora, dal trono vicino all’ingresso da cui dominava la sala, aveva già invitato due volte i neghittosi visitatori a salire ai piani superiori. Decisa, come sempre.

«Basta fare flanella. Forza, guardoni. Dove le abbiamo lasciate le palle? Muoversi, finocchi, che le signorine sono belle.»

Non si faceva impressionare da nessuno. Molto chic. Di lì a un po’, fatto scattare l’interruttore centrale della luce e dato di piglio all’apparecchio del Flit, li avrebbe fatti scappare precipitosamente, mettendosi a spruzzare come un’indemoniata e cercando di prendere in faccia certi fin troppo noti habitué della flanella.

Il clima di Como non è mai stato dei più secchi. Nell’aria ristagna costantemente una certa reminiscenza di lago. Come un generalizzato velo di umidore, tendente a farsi cappa con il crescere del caldo. L’Alessandrina non riuscì a resistere al fascino ipnotico dello sbadiglio, senza nemmeno vedere da che parte arrivasse. La bocca le si aprì da sola. La coprì a metà con il ventaglio, mentre le cosce, appena velate del lacustre umidore, si mettevano a dondolare in cerca di frescura e lo sguardo rimaneva blandamente fisso su quella porta attraverso cui fra pochi istanti sarebbe avvenuto l’esodo di massa dei pecoroni scacciati dalla nuvola insetticida.

Invece eccolo lì in piedi sulla soglia, il cappello in mano, l’impermeabile sul braccio. L’uomo del mistero… »

lunedì 16 settembre 2019

A Dublino nel 1974 con James Joyce e Nikon F

Autunno 1974. Una bella gita, clima umido ma molto più gentile che in Italia, avendo una vaga idea che un giorno o l'altro avrei potuto provare a tradurre l'Ulysses di Joyce, scattavo foto…




La Torre Martello dove Joyce è vissuto qualche giorno e dove inizia l'Ulysses. 

Il mare dalla Torre Martello. Parla Mulligan: «Dio… Il mare non è proprio come dice Algy: una grande dolce madre? Il mare color verde moccio. Il mare strizzascroto. Epi oinopa ponton. Ah, Dedalus, i greci! Devo insegnarti. Bisogna leggerli in originale. Thalatta! Thalatta!...

«Il suono di due voci acute, un’armonica a bocca, echeggiò nell’atrio spoglio venendo dagli strilloni: I ragazzi di Wexford noi siamo, che pugnaron col cuore e con la mano.»

«Arrivano su garzoncelli con la loro zazzera rossa dalla contea di Leitrim, a lavare i vuoti e recuperare i fondi di bicchiere in cantina… Sete generale. Un bel rompicapo sarebbe attraversare Dublino senza passare davanti a un pub…»

L’odore freddo di pietra sacra lo chiamava. (Il signor Bloom) salì i gradini consunti, spinse la porta girevole ed entrò silenziosamente dal retro.



«Nella vetrina della bottega di antichità di Lionel Mark l’altezzoso Henry Lionel Leopold il caro Henry Flower in realtà il signor Leopold Bloom esaminò ammaccati candelabri, fisarmonica debordante verminoso soffietto. Un affare: sei gambe. Potrei imparare a suonare. A buon mercato…»

«(Il signor Bloom) si fermò davanti alla vetrina di Dlugacz con gli occhi fissi sulle matasse di salamelle, salsicciotti…»



A letto accanto a Leopold — di spalle e testa a piedi” —, Molly Bloom, informata che il marito ha portato  lì e cercato di trattenere Stephen Dedalus dopo aver conversato a lungo con lui, pensa: «… naturalmente ha fatto finta di capire tutto e probabilmente gli ha raccontato di essere uscito dal Trinity College…»

venerdì 20 gennaio 2017

Intervista in voce con Sebastiano Vassalli, 1995


Sebastiano Vassalli nel 1976
a un convegno a Orvieto
Nella primavera del 1995 Sebastiano Vassalli pubblicò il romanzo 3012, che fu promosso all’insegna dell’ODIO. Proprio: un romanzo sull’ODIO. In realtà non era precisamente così, ma, insomma, il Vassalli ci teneva, e il messaggio promozionale funzionò egregiamente.

Io tra le tante cose che facevo per sopravvivere collaboravo a “Class”, diretto dal diavolone vulcanico di nome Paolo Pietroni. Adorava letteralmente l’ODIO, lo considerava anche lui il motore del mondo. Mi spedì subito a Biandrate, tra le risaie del novarese e le rane, a intervistare l’autore.

Con Sebastaiano Vassalli eravamo amici, veramente amici, da quasi 30 anni. Era tra l’altro stato il mio primo editore: nel 1973 aveva pubblicato le mie poesie nella sua collana sperimentale “Ant Ed”. Accettò dunque di buon grado di farsi intervistare e l’intervista fu pubblicata su un numero di “Class” della primavera/estate di quell’anno, non ricordo quale.

In questi giorni ho fortunosamente ritrovato la cassetta con la conversazione registrata, l’ho riascoltata e l’ho trovata molto, molto gustosa. Peccato che, finito il nastro di 46 minuti, io abbia rinunciato a inserirne uno nuovo, perché ce ne siamo dette tante altre ancora più gustose. 

Ma, non essendoci nastro, ci siamo un po’ lasciati andare sui nostri ODI personali, quindi è forse meglio che il tutto sia stato inghiottito dall’oblio. Mi ha detto cose al vetriolo sui suoi rapporti con certi autori di Einaudi, nome e cognome. Meglio così, silenzio…

L’ho messa online sul mio sito. È lunghetta, 47 minuti, ma se può interessare…

domenica 11 settembre 2016

"Il Segreto dell'Azteco", mio nuovo romanzo in formato Kindle su Amazon

Il testo del romanzo è preceduto da questa mia Avvertenza

Il Segreto dell'Azteco è il mio ventesimo libro (16 romanzi, 3 di viaggio, 1 di poesie), ed è il secondo pubblicato direttamente in formato elettronico, senza una precedente edizione cartacea. Come per quel romanzo — Rosa d’Oriente —, anche la gestazione di questo è stata piuttosto lunga. La racconto perché — come nel caso precedente — sono l’unico a conoscerla nella sua interezza, e se non la divulgassi in questa sede nessuno ne saprebbe niente. È cominciata nell’autunno del 1996. Venti anni fa…

Avevo lasciato (o perlomeno ero fermamente intenzionato a lasciare) l’ottima Casa Editrice Rizzoli di allora per malumori personalissimi e avevo ricevuto un incarico di consulenza ad ampio raggio dalla mia vecchia Longanesi di Mario Spagnol (anch’essa da me lasciata una decina di anni prima per malumori personalissimi…) In realtà con la gloriosa casa editrice non avevo mai rotto del tutto, la stima che mi legava reciprocamente all’editore non era mai venuta meno nonostante il mio abbandono. Ma abbandono c’era stato, e il vecchio Spagnol, oltre che un grande editore era un osso durissimo. Rognoso. Come consulente mi aveva rivoluto lui, ma come autore? Non osavo proporglielo, e lui mi lasciava rosolare a fuoco lentissimo.

Ma stavo elaborando un progetto molto corposo, che si sarebbe dovuto sviluppare su tre romanzi. Una complicata composizione a cavallo tra il techno-thriller e il New Age, che avrebbe avuto come motivo conduttore la presenza di alcuni personaggi principali impegnati a risolvere tre intricate vicende. Tra l’autunno del 1996 e l’inizio primavera del 1998 avevo scritto tutto il primo romanzo, quasi tutto il secondo e lo scheletro del terzo. 

A quel punto, verso il ponte del 1° maggio, ho preso il coraggio a piene mani e ho telefonato al cerbero Spagnol, il quale ha ridacchiato a lungo, com’era sua abitudine e mi ha invitato ad andarlo a trovare. In casa editrice? No, a casa. A Milano? Eh, no, troppo facile: c’era il ponte, lui andava a trascorrerlo nel bellissimo rifugio di Lerici, alto sul mare, con un grande giardino. Potevo portargli lì lo scartafaccio e illustrarglielo con tutta la calma necessaria.

Chiesi ospitalità a cari amici a Castelnuovo Magra e da lì mi precipitai a Lerici, con il cuore in gola. Sono sempre stato un maestro nel bruciarmi i ponti dietro le spalle, quindi tornare alla Rizzoli era ormai impossibile, né d’altra parte lo volevo. Ma non sono altrettanto bravo a propormi.

In realtà non illustrai un bel niente. Il rognoso Spagnol, grande giocatore di poker e sempre più deciso a farmi scontare l’affronto dell’abbandono, mi fece posare il malloppo su un tavolo e, sempre ridacchiando, mi guidò fuori, nel bel giardino. Era convinto di avere un fantastico pollice verde e ci teneva a esibirlo. Passammo un’oretta o forse più a discutere accanitamente se il rododendro fosse un’azalea o meno. Io dicevo di sì, lui negava con la massima decisione. Due belle teste dure. Avevo ragione io, come non poche altre volte nei nostri dibattiti, ma il sugo è che a un certo punto mi congedò. Aveva da fare.

E il mio progetto? Non lo avevamo neanche guardato. Calma, le farò sapere… 

Un paio di mesi più tardi, poco prima delle ferie, mi convocò nel suo ufficio in Corso Italia a Milano e mi disse seccamente che il primo romanzo non gli dispiaceva ma dovevo cambiare l’ambientazione. C’era troppa Turchia, che secondo lui non portava bene. Chissà perché. Il mio primo romanzo “turco”, Il Cielo della Mezzaluna, pubblicato da lui, aveva avuto un’ottima accoglienza, rivelandomi alla critica e al pubblico, e i successivi romanzi “turchi” pubblicati da Rizzoli — Un amore innocente e Crudele amore —, erano andati benissimo.

Comunque all’editore che legge i testi bisogna sempre dare retta, per cui mi misi al lavoro. E lavorando mi resi conto che aveva ragione lui. La Turchia — le acque termali di Bursa e i dintorni — risultava pochissimo credibile, non tanto in sé quanto per tutti i trambusti che infliggevo al protagonista. Tra l’altro avevo deciso di farlo andare in coma, poveretto, durante un’immersione nell’Egeo, senza avere nemmeno la più vaga idea dell’argomento. L’idea mi era venuta avendo visto all’opera amici italo-turchi che gestivano una scuola di quell’attività nell’Egeo, ma in pratica non ne sapevo niente. Mi ripromettevo di farmela spiegare bene da loro, ma alla fine mi sono reso conto che rischiavo di scrivere un bel po’ di sciocchezze. Sono attività che si praticano, non te le può spiegare nessuno.

Tornai in Italia piuttosto confuso e orientato a piantare in asso il progetto. Dopo Ferragosto avevo l’abitudine di raggiungere in Slovenia altri cari amici per appassionate sfide di raccolta di funghi. E li raggiungevo facendo ampie deviazioni che in precedenza mi avevano portato a visitare l’Ungheria e la Romania. Quell’anno decisi di andare in Polonia, dov’ero stato 35 anni prima, per rivedere Cracovia e dintorni passando per i Monti Tatra e la località montana di Zakopane, di cui avevo uno squisito ricordo di gioventù.

Non ci arrivai mai. Ai piedi dei Tatra, sul versante slovacco, ecco lì la mia ambientazione, nelle acque termali di Bardejov, con infinità di pinete (non trovai nemmeno un fungo commestibile), bizzeffe di chiese neogotiche e tutta un’atmosfera post comunista che sembrava fatta apposta. Era perfetta. Montagna invece che mare, e un incidente di sci ci mettevo poco a inventarlo e raccontarlo. Ho cominciato a sciare a nove anni, nel 1948, e lo facevo regolarmente — accanitamente — ogni inverno. Anche d’estate, al durissimo Stelvio di allora. Ero di sicuro più a mio agio con lamine e scarponi che con boccagli e pinne.

Ci misi pochissimo a sistemare il romanzo, anche se in pratica significò riscriverlo tutto. Ma l’impianto era lo stesso. Mario Spagnol mi lasciò rosolare ancora un paio di mesi, poi finalmente in novembre mi diede la sospirata risposta. Mi faceva un contratto per il primo romanzo — che fu Una porta di luce, febbraio 1998 — per il resto si sarebbe visto.

Intanto si era purtroppo scatenata in lui la tremenda malattia che ce lo avrebbe portato via di lì a un paio di anni, e faticava moltissimo a leggere i testi che gli venivano proposti. Ma, uomo di ferro, voleva essere lui a decidere.


Così la seconda parte del progetto, pur pronta da mesi, faticò ad arrivare a pubblicazione, anche se alla fine divenne realtà con il romanzo intitolato Codice Ombra, autunno 1999.

Spagnol ci lasciò pochissimi giorni dopo, e la progettata terza parte rimase come in un limbo, palleggiata tra me e suoi successori, impegnati forse a dimostrare di essere bravi come lui. Più di lui, caso mai… Contenti loro…

Va be’, dopo tanti anni la terza parte è arrivata a conclusione ed è questo romanzo, Il Segreto dell’Azteco. E con esso arriva a conclusione anche quella che io chiamo "Trilogia delle Luci". Buona lettura.

giovedì 21 aprile 2016

A proposito di "romanzo - romanzo"…







I cinque finalisti del Premio Campiello 1985:
Montefoschi, Montesanto, Pazzi, Tabucchi, Biondi

Vedo che sta tornando in auge l’espressione “romanzo-romanzo”. Mi fa molto piacere, visto che il primo a coniarla (e non senza subire dure reprimende) sono stato io nella prima metà degli anni 1980, per cercar di spiegare il tipo di romanzo che intendevo fare. Un tipo di romanzo praticamente vietato dalle sinforose dello striminzito “esercizio di stile”.
Eccone qui un esempio in un articolo che mi è stato chiesto dal Gazzettino di Venezia nell’agosto 1985 per presentare il mio “Gli occhi di una donna” in vista della finale del Premio Campiello (è stato chiesto a tutti e cinque i finalisti).
«Hai osato l’inosabile», mi aveva tuonato telefonicamente nell’orecchio il bizzarro Carlo Vigorelli dopo aver ricevuto e letto la sua copia d’obbligo in quanto giurato tecnico del Premio…
Romanzo-romanzo, già…



Era una luminosa domenica di fine primavera, qualche anno fa, sopra Bellagio, a cavallo dei rami del lago di Como. Nel giardino dell’antica dimora gentilizia l’anziana dama, dominatrice incontrastata della casa e della famiglia, aveva creato un silenzio religioso semplicemente mettendosi a raccontare. Con la sua voce appena incrinata dall’età e con un tono arguto, ironico, capace di incantare, narrava lontane vicende lombarde: amori, matrimoni, mésalliances. Vera narratrice onnisciente, non ignorava e non tralasciava nulla. Cognomi e nomi, nascite e morti, vite e miracoli fluivano tra un ondeggiare spiritoso di capelli quasi candidi. Che donna straordinaria. E che occhi.
Con precisa dovizia di particolari, a un certo punto si dilungò sulla complessa vicenda matrimoniale di una certa figliola della grande industria lombarda con un vivace rampollo dell’aristocrazia lombarda più antica. Una vicenda da cui era disceso un cospicuo numero di eredi e problemi. «Tutto sommato», concludeva la narratrice prima di passare ad altro succulento e ormai innocuo pettegolezzo postumo, «si vede che Dio li aveva fatti perché stessero insieme. E in definitiva non si sono poi neanche trovati tanto male. Se non fosse stato per il modo come si è concluso il loro matrimonio…» Un modo davvero singolare, non certo da vite comuni. Da romanzo, caso mai. Un piccolo scandalo, tra il boccaccesco e il tragico, che qui non c’è bisogno di riferire.
Stentavo a credere alle mie orecchie, alla straordinaria fortuna che mi si presentava: avevo a disposizione, bell’e pronta, soltanto da infiocchettare un po’, la fine di un romanzo. E per le mie «ricette di fabbricazione» la fine è un ingrediente fondamentale: mai mettersi a scrivere una storia se non si sa come va a finire. Sarà poi un grandissimo divertimento inventare gli svolgimenti, le trappole e i sotterfugi necessari per ritardare e complicare il più possibile l’arrivo di tale fine. Così, nell’inseguimento, dopo l’autore si divertirà anche il lettore.
Dunque disponevo della fine di un romanzo. Potevo cominciare a lavorare. Bisognava pensare un attacco. Chiesi permesso e, immerso in rosei pensieri, uscii dalla cerchia d’ombra della secolare farnia che dava frescura alla compagnia, inoltrandomi nel prato, verso il bosco. Venni richiamato al presente da un nitrito sonoro. Una giumenta bionda, quasi bianca, si muoveva solenne nel suo recinto, cercando di scacciare a colpi di coda le mosche che l’assediavano e a calci secchi il pony che la seguiva testardo. Mi riscossi dai miei pensieri con un trasalimento. L’antica dimora gentilizia, la farnia, il prato, il lago, il bosco, la bella giornata, la giumenta… Disponevo anche di un possibile inizio di romanzo. Bisognava trovare il protagonista.
Un protagonista che — sempre secondo le mie «ricette di fabbricazione» del romanzo — non deve essere un superuomo, un eroe con cappa e spada, un personaggio del destino, ma un comune essere umano, testimone di tutti gli eventi dominanti del romanzo. Un personaggio, cioè, che non “crea” la vicenda, ma senza la cui presenza essa non avrebbe ragione di essere, non sarebbe nemmeno pensabile. Mi erano rimasti fissi nella memoria, incisi, gli occhi della squisita padrona di casa. Quante cose avevano visto. Oltre tre quarti di secolo di Storia con la “S” maiuscola. Da tempo desideravo confrontarmi con una figura femminile di rilevante importanza romanzesca, e l’occasione sembrava straordinariamente propizia. Una donna, dunque, davanti ai cui occhi scorresse e si intrecciasse il reticolo di eventi che avrebbe dovuto condurre lo scrittore (e per il suo tramite anche il lettore) da quel cielo del lago di Como — «splendido, in pace» —, dalla giumenta nel suo recinto, su quel prato ai margini del bosco, fino alla conclusione di un matrimonio non perfettamente assortito ma di lunga durata: una conclusione singolare come quella raccontata dall’anziana signora, anche se ovviamente del tutto rielaborata e resa definitivamente romanzesca. Così, in pochi minuti di un pomeriggio di sfolgorante luce lariana, era nato l’abbozzo di quello che sarebbe diventato il romanzo Gli occhi di una donna.
L’ambientazione era obbligata, oltre che amatissima: il Lago di Como, sopra Bellagio, e Milano. Il periodo, più o meno quello che andava dalla Prima Guerra Mondiale fino al secondo dopoguerra. Con un finale che vedesse la “donna degli occhi” arrivata a un’età quasi pari a quella della straordinaria narratrice che mi aveva fatto balenare l’idea. Bisognava mettersi a lavorare. Per molto tempo le biblioteche divennero un’appendice della stanza dove solitamente lavoro. Occorreva inventare in tutti i dettagli due famiglie, una di “grande industria” e l’altra di “antica aristocrazia”, con antenati, fortune, dimore, parenti, frequentazioni. Con radici nei secoli. Nacquero così gli industriali Lucini e gli aristocratici Olgiati Drezzo. Si inventarono il villaggio di Prato Sant’Antonio e la Farnia. Davanti alla mia immaginazione si accalcarono bisnonni e nonni, padri e madri, zii e cugini. Si perpetrarono signorilissimi sperperi di antichi patrimoni gentilizi e, sul versante opposto, si compirono oculati accumuli di beni “borghesi”. Nacquero da una parte Emma (aspirando, non piccola immodestia giovanile d’autore, ad aggiungerne un’altra alla schiera di quelle che già avevano nobilitato la storia della letteratura: Emma Bovary, Emma Woodhouse…) e dall’altra Luca Giorgio, destinati per contorta e romanzesca volontà del fato narratore a diventare moglie e marito.
Si dovettero studiare storia e ambienti della Grande guerra e della Seconda guerra, della ricostruzione industriale postbellica. Seguirono dolori, amori, matrimoni, nascite, morti, complicazioni, contrasti, figli, nipoti, stranezze, oculatezze, imprudenze: insomma, un romanzo-romanzo, con tutte le carte in regola e gli ingredienti canonici. E via e via e via, fino ai giorni che stavo vivendo mentre scrivevo, quando ancora gli occhi di Emma Lucini, che tanto avevano visto come quelli dell’anziana dama ispiratrice della vicenda, avevano modo di assistere a fatti e misfatti degli ultimi eredi delle due famiglie, sempre lì, tra Milano e il lago di Como, a calcare le scene di un romanzo, che non sono poi tanto diverse da quelle della nostra vita.

domenica 8 novembre 2015

Sogni. Ovvero: "Il mattino dei miei 100 anni". Un racconto del 1992


I miei racconti si possono leggere in Rete qui


Il signor L. O., di professione scrittore, si svegliò presto, come ormai gli succedeva regolarmente. Non era più giovane. Negli ultimi decenni la gerontoingegneria aveva fatto veri passi da gigante. Quel giorno, il 17 maggio 2039, compiva cento anni. Né si poteva dire che avesse avuto una vita di tutto riposo. Eppure si sentiva in forma smagliante. Un ragazzo. Preso da piacevoli pensieri birichini, si attardò a letto nel tepore di quel mattino di primavera che i sensori sistemati accanto alla finestra gli dicevano di intensa limpidezza. Quindi, spostato lo sguardo sull’indice digitale della Plancia Dati di fianco al letto, posizionò la mente sul programma di Musica Classica trasmesso per via subliminale dalla RAI, la non mai abbastanza lodata Rete di Assoluta Indipendenza.

Lo stesso indice, dietro sua richiesta mentale, gli segnalò che erano le sette e mezza. Il cicalino dell’EterVideoTelefono gli ronzò nel cervello con il suo suono vellutato. E — fantastico — non avevano sbagliato numero. Cercavano proprio lui, non il pediatra Varicella o la Banca Colombiana di Riciclaggio. Sbalorditivo. Vide stagliarsi nitida l’immagine della celebre finanziera Laura Beatrix, passata da qualche tempo dal ruolo di acuta lettrice a quello di affettuosa mecenate. Prima di uscire per farsi portare in Borsa, aveva pensato di chiamare per augurargli un buon compleanno. Che preziosa amica. Quanti anni poteva avere? Sessantacinque? Settanta? Un fiore, anche se ultimamente si era un po’ appesantita. Bisognava suggerirle di cambiare Fitness Center. O forse sarebbe bastata una lieve modifica di dieta. Ridurre il caviale. Meno champagne. Per fortuna, quanto lui era miserabile — come del resto quasi tutti gli scrittori Off-USA —, tanto lei era ricca. Se avesse dovuto contare sui diritti d’autore, il signor L. O. avrebbe al massimo potuto invitarla a cena all’ECA, il malinconico Ente per la Caloria all’Autore.

Ringraziatala calorosamente e assicuratole che avrebbe passato la serata con lei, si alzò. Alle nove e mezza si sarebbero messe in moto la Scopa Elettronica, la Stiratrice Universale, la RammendaTutto, la Lavavetri Automatica e le varie altre diavolerie che mandavano avanti la casa. Persino l’Innaffiatore Temporizzato Nasturzio-Ridens. Che mondo di meraviglie gli era stato creato dal progresso. Anche se quando — fric-frac-swisc-swosc — si metteva in moto tutto quel bailamme automatizzato di scopa-lava-rammenda-stira, non gli piaceva molto essere lì. Però intanto la vita era diventata una specie di sogno.

Inoltre, fatte aprire le finestre con il meccanismo a sguardo, aveva avuto la conferma che fuori la giornata era mirabile. Il tè con biscotti, più le diverse pillole che doveva ingerire ogni mattino, erano pronti sul tavolo del cucinino, appena di fianco al Bancomat Domestico Individuale della BNL, la Banca Nazionale della Letteratura, preparati con perfetto tempismo dalla Personal-Cook sincronizzata con la temperatura del letto. Il televisore subliminale stava trasmettendo le notizie del giorno. 

Il Golfo era talmente placido che irakeni e kuwaitiani ci andavano insieme in pattino. Palestinesi e israeliani ballavano la danza del fazzoletto. Nelle Filippine tutti si abbracciavano e non c’era nessuna rivolta militare. In Africa il tasso di mortalità infantile era sceso a zero. L’Aids era sgominato. Il buco nell’ozono sparito. Il presidente americano e quello russo avevano assicurato per la settimana seguente l’annuncio del nome del loro Erede Unico. Di conseguenza, la Commissione Permanente per la Pace Universale sarebbe stata sciolta, visto che i suoi membri erano ormai pagati a ufo. Il signor L. O. scosse il capo e si voltò dalla parte opposta, determinando lo spegnimento automatico del televisore. Mai una notizia interessante.

Si spolverò il viso con la Shaving-Tonic-Powder e poi si lavò, trovandosi perfettamente rasato e tonificato. I denti se li era puliti due settimane prima con l’apparecchio al fluoro-cloro-trombone, e di conseguenza per sei mesi era a posto. Il polsino della camicia gli disse che era ora di uscire. Comoda questa idea di avere l’orologio incorporato nelle nuove Shirt-Watch. E fantastica l’idea che i polsini delle medesime si ricaricassero con il calore emesso dalla Stiratrice Universale. Del tutto logico, invece, ma comunque comodo, che a determinare il passaggio dall’ora solare a quella legale fosse, automaticamente, l’inclinazione del sole sulla linea ideale che correva tra il parafulmine della Casa Bianca e quello del Cremlino, checché potessero dirne i tedeschi, i giapponesi e i polacchi. 

I quali ultimi avrebbero addirittura preteso di applicare alla questione — manualmente! — un ingarbugliatissimo indice calcolato sulla formula per la produzione della birra applicata al numero dei peli (spezzati in quattro) di figli, nipoti e pronipoti di Lech Walesa. Famiglia che secondo le ultime stime ufficiali risultava composta da sette milioni trecentoventiseimila zerozerotre individui, tutti credenti e praticanti, anche se equamente ripartiti nei quattro sessi riconosciuti e codificati dall’anagrafe e dal Sinodo delle Chiese Monoteiste Uniate.

Ausilio, l’Autom-Portiere, lo salutò con grande calore, anche se con voce stranamente impastata e con movenze insolitamente goffe, consegnandogli un’aero-missiva appena arrivata. Il signor L. O. si annotò nel DataBase mentale di avvisare la Fraterna Gestione Centralizzata della Vita Condominiale che era forse il caso di provvedere a una verifica della Funzione Sound e dei Chip della Mozione del bravo automa, anche lui ormai di mezza età.

Quindi osservò la lettera. Ci aveva messo non più di un giorno ad arrivare. Caspita. La aprì. Rimase interdetto. Le GalactoEdizioni Bodoni & Garamond, cui da qualche anno erano affidate le opere del suo ingegno, lo informavano che la SIAE, Società per l’Idillio tra Autori ed Editori, aveva riscontrato nel rendiconto relativo all’ultimo romanzo un calcolo sbagliato a suo sfavore. Le copie-omaggio detratte dai diritti d’autore non erano 2370 bensì 237.

«Ci scusiamo per il deplorevole disguido», concludeva la sbalorditiva aero-missiva. Gli rendevano il maltolto. Gli davano dei soldi. Un vero sogno. Una volta tanto avrebbe potuto invitare a cena Laura Beatrix in un locale degno di lei.

Il marciapiede, in fibra sintetica rosa dalle sfumature cangianti, gli apparve particolarmente gradevole. Da quando la giunta endecapartito del Comprensorio Territoriale Unificato aveva reso rigorosamente operativo il divieto di ancorare ai davanzali delle finestre aeromobili e stealthmotociclette — oltre che, soprattutto, gli esecrati fuoriatmosfera —, non soltanto si respirava, ma si riusciva persino a vedere il cielo. Toh!

Di nuovo rimase interdetto. Ne succedevano proprio di cotte e anche di crude. Aveva visto passare una fanciulla in bicicletta. Un comune biciclo dei bei tempi andati, con il suo manubrio, le sue gomme, i freni, il catarifrangente, le ruote, il cestello. Un oggetto antidiluviano, ma il motivo di tanto stupore era un altro. Ben altro. C’era veramente aria di sogno. Non soltanto, infatti, la fanciulla pedalava sulla carreggiata senza zigzagare sul marciapiede, ma — il signor L. O. si sfregò gli occhi, estaticamente incredulo — procedeva sulla destra invece che contromano. Che cosa stava succedendo? L’anziano scrittore applicò la Funzione Retrovisiva per verificare se per caso avesse alle spalle il bravo Ausilio, con i cui Chip Auricolari commentare lo sconvolgente evento, ma non vide nessuno.

D’altra parte non aveva tempo da perdere. Doveva andare alla sede dell’INPS, l’Istituto Neoconsolidato per il Pubblico Sollazzo, dove era stato convocato per comunicazioni ’’urgenti’’ relative alla sua pratica di pensionamento. Da quando il BlitzMinistro per il Benessere Collettivo aveva imposto al Parlamento Unificato Ciscaucasico lo spostamento dell’età pensionabile al compimento dei cento anni, il benemerito Ente aveva cominciato a incontrare qualche intoppo.
Come regolarsi, per esempio, per il calcolo del coefficiente del giorno in cui l’avente diritto si era seduto per la prima volta sul vasino? Mica tutti, dopo circa novantanove anni, se ne ricordavano. E, d’altra parte, fino a qualche tempo prima non era stato obbligatorio inserirlo nei calcolatori insieme all’asilo, onde applicare al calcolo della pensione anche il valore rivalutato del consumo di latte e lecca lecca.

L’Air-Tram arrivò dopo pochi secondi, depositando lo scrittore esattamente davanti alla sede dell’Ente. Il signor L. O. entrò, preparato ad aspettare una decina di ore e anche a essere un po’ schiaffeggiato. Pazienza. Per un povero letterato senza Nobel la pensione può essere di importanza letteralmente vitale. Chissà come si erano ulteriormente ingarbugliate le cose, lì dentro, nei quasi cinquant’anni trascorsi da quando era venuto lì per presentare la domanda che aveva motivato questa convocazione ’’urgente’’.

Gli si fece incontro un’affascinante hostess, che con un sorriso radioso lo invitò a prendere posto su una poltroncina. «La prego di pazientare un poco», disse con la voce di un flauto dolce. «Ci vorrà un po’ di tempo. Per l’esattezza, cinque minuti, trentasette secondi e settantaquattro centesimi. Per farci perdonare, possiamo offrirle un caffè? Un tè al gelsomino? Non so: un tamarindo?»

Il signor L. O. non ascoltava più. Del resto non c’era niente da sentire: si era svegliato da un sogno tutto in rosa.

© Mario Biondi

giovedì 5 novembre 2015

Letteratura USA Western? Preferisco Thomas Savage

Foto di Adison Berkley (da Wikipedia)

Nonostante il mio vivo interesse per la narrativa americana non conoscevo Thomas Savage. Mi sono imbattuto in due suoi libri nel 2002-2003, quando creavo-dirigevo il bellissimo InfiniteStorie.it, recentemente assassinato dall’editore.
Ecco che cosa ne scrivevo:


(2002) Una straordinaria voce del West
“Il potere del cane”
ISBN: 8879285904

Le vie del Sistema della Moda sono perlomeno contorte, per non dire misteriose. E in modo ugualmente misterioso agisce il Sistema della Moda nell'ambito dei libri. In qual modo spiegare, infatti, con tutta la roba mediocre e minima minima che siamo stati esortati, invitati, blanditi, indotti, sedotti a leggere in questi ultimi decenni – nell'ambito della narrativa USA –, come mai nessuno di noi abbia mai sentito nemmeno nominare Thomas Savage? E, si badi bene, non soltanto qui in Italia ma anche nella sua madrepatria. Anche lì, di Savage – classe 1915, di Salt Lake City – si è cominciato a parlare sul serio, e in toni di grande calore, in pratica soltanto nel 2001, quando è stato finalmente ripubblicato quello che si ritiene il suo migliore romanzo, Il potere del cane, che in origine è del 1968. Trentacinque anni fa. Il largo pubblico non lo aveva assolutamente notato, nonostante la buona accoglienza critica ricevuta. Del resto Savage ha pubblicato altri dodici romanzi, e anche di essi non si è accorto quasi nessuno. Finalmente Il potere del cane è uscito anche in Italia.

Alla fine degli anni Sessanta e in tutti i Settanta vi erano evidentemente altre priorità culturali. Negli Ottanta, poi, dovevano trionfare a tutti i costi le "mille luci", moderno succedaneo dei cinematografici telefoni bianchi del bel tempo andato. Tutto andava bene, tutto "doveva" andare bene, guai a metterlo in dubbio in qualsiasi modo: come inquadrare in un simile contesto l'amara e aspra vicenda raccontata da Savage nel suo Potere del cane? Adesso però la critica americana parla di "grande scrittore", uno di quelli che trasformano la prospettiva letteraria, e lo affianca ad altri grandi come Steinbeck, Hemingway (che in realtà non sembra entrarci un granché), Faulkner e via dicendo. E sembra sorprendentemente vero.

Anni Venti, dopo lo sbandamento della Grande guerra, prima della tremenda crisi di fine decennio, ma già con in vista qualche avvisaglia persino nel remoto Montana. Un giovane medico in cerca di lavoro si trasferisce con l'altrettanto giovane moglie in una cittadina della frontiera West e lì si mette a esercitare onestamente la sua professione. Ma è un perdente nato, niente sembra andargli bene, neanche il figlio che gli nasce. Adeguarsi alla rozzezza di modi del luogo gli risulta impossibile. Non può farcela; alla fine del tunnel lo attende una corda. A trovarlo impiccato è il figlio bambino.
E la chiave di volta della vicenda sarà proprio questo figlio, divenuto adolescente e avviato con quasi trasognata determinazione a seguire gli studi e la professione medica del padre. Un ragazzo strano, difficile, sfuggente, apparentemente effeminato, traumatizzato dalla morte del padre e dalla violenza in mezzo a cui è costretto a vivere e a cui è fermamente deciso a non cedere. Questa parte del libro, questi personaggi, non possono davvero non evocare uno dei grandissimi della letteratura USA, John Steinbeck: sembrano scene uscite da Furore, da Uomini e topi.

Da una certa Edith Wharton e quindi da un certo Henry James sembrano invece uscire altri personaggi. Il Vecchio Signore e sua moglie, esponenti del bel mondo blasé dell'Est americano, venuti a fare i fattori, ad allevare bestiame nell'aspro West, tra le rocce del Montana. Due personaggi del tutto estranei a quel mondo, gente abituata a leggere, ad ascoltare musica lirica, a mettere in tavola coppette lavadita, piattini per il burro e strane posate di cui nessuno sa che cosa fare. Erano già ricchi, diventano ricchissimi; in buon punto decidono di lasciare l'azienda nelle mani dei due figli divenuti adulti e di ritirarsi a vivere nell'agio di un ottimo albergo di Salt Lake City.

A questo punto il romanzo si fa (un po'), più che Faulkner, Tennessee Williams. I due figli dei Vecchi Signori, con i loro tic, sembrano uscire da una delle sue tormentate vicende, soprattutto il maggiore, Phil, intelligentissimo, laboriosissimo, rudissimo, che vive nel mito dell'unica persona che abbia mai ammirato in vita sua, anzi forse addirittura – chissà, senza mai ammetterlo, senza mai nemmeno consentire al pensiero di affiorare – amato: Henry Bronco, il grande cowboy che quando lui era ragazzo gli ha insegnato tutto della vita. L'altro fratello, George, onesto, serio, affidabile, taciturno, è a suo modo un succube, vive all'ombra del maggiore. Quarantenni, dormono tuttora in due lettini affiancati nella loro camera di ragazzi.

E quando George decide di abbandonare questa camera, la più profonda agitazione cala a tinte lividissime dalle desertiche giogaie del Montana. George ha conosciuto la vedova del medico suicida, ha deciso di sposarla e la porta nella proprietà, a dormire con lui, in un'altra stanza. La vita al ranch diviene un vero tormento, sulla donna e sul suo singolare figlio incombe davvero la tragedia. In quella casa, in quell'aspro mondo plasmato dagli Henry Bronco, o loro o Phil. Ed è normale che il cane potente morda e scacci quello meno forte. Se non, addirittura, che lo uccida.

Così il libro arriva a un finale assolutamente non rivelabile, addirittura nemmeno accennabile, che riserva una sorpresa stupefacente e parla la lingua narrativa di un altro grandissimo della letteratura americana, che non sembra esser stato citato da nessuno dei nuovi aficionado di Savage: Edgar Allan Poe.

(2003) Torbidi destini nel Mid West americano
“La regina delle greggi” 
ISBN: 887928584X

Il lettore di un testo letterario non dovrebbe cedere alle interpretazioni psicologizzanti, che possono essere molto fuorvianti e indurre a equivoci fatali. E ancora meno, ovviamente, dovrebbe farlo il recensore. Ma come si fa, in certi casi, di fronte al riproporsi, nei testi di un autore, di certe situazioni topiche? Come avviene, per esempio, in Thomas Savage, o perlomeno nei suoi due romanzi più noti: Il potere del cane (1967, tradotto nel 2002) e La regina delle greggi (1977, tradotto nel 2003).

Già recensendo il primo avevamo creduto di poter indicare Tennessee Williams tra i padri putativi di questo importante (e colpevolmente poco conosciuto) scrittore americano, se non altro per l’utilizzo di certi materiali abituali del grandissimo drammaturgo: il suo insistere su situazioni torbide di famiglia. Nel Potere del cane ci sono due fratelli adulti, allevatori del West, che vivono una sorta di incesto omosessuale, non dichiarato e ancor meno (chissà…) praticato, ma di cui nondimeno si avverte fortissimo il peso, quasi persino l’acre sentore mascolino, in quella loro cameretta comune da eterni adolescenti. E l’arrivo di una moglie per il minore dei due scatena i torbidi che porteranno alla tragedia finale. La donna, dal canto suo, è una fragile vittima dell’alcol...

Orbene, seppure in maniera oscura e a tratti persino un po’ confusa, anche nella parte finale di La regina delle greggi compaiono due fratelli adulti che vivono in simbiosi (e anche i loro genitori sono due persone di grande chic venute come per caso dalla East Coast a fare gli allevatori nel West). E compare anche l’astio di uno dei due fratelli per la moglie dell’altro. La quale moglie cede a sua volta all’alcol, anche se in questo caso (ma nessuno lo sa) ha una colpa da nascondere. Se il deus ex machina del primo romanzo è il figlio adolescente della donna poco felice, nel secondo la situazione si ripete pari pari, anche se in questo caso il figlio è adulto e fa lo scrittore ed è costretto del tutto suo malgrado a indagare sul passato della madre e sulla sua presunta colpa.

Nel 1912, a Seattle, una bambina viene adottata da una famiglia cui è tragicamente morto il figlio giovinetto. Questa bambina è stata abbandonata in un ospedale dalla madre, che ha dato il suo consenso scritto a che qualcuno la adottasse. Divenuta largamente adulta, e con un matrimonio poco fortunato alle spalle, la benestante e ostinata Amy decide di mettersi alla ricerca dei genitori naturali. Il padre adottivo, infatti, un probo e noioso avvocato, le ha lasciato tutta la documentazione del caso, da usare se mai le fosse venuta voglia di indagare sulla propria realtà. Nome del padre, nome della madre, dichiarazione firmata dalla madre…

Sulla costa opposta degli Stati Uniti, nel Maine, vive uno scrittore di buon successo e anche lui largamente adulto, Thomas Burton, discendente di due famiglie di allevatori, una di bovini e una di ovini. Pecore, insomma: “greggi”. I vaccari per parte di padrigno e i pecorai per parte di madre, la dolce, fragile, irreprensibile Beth. Una vita tranquilla, non più di tanto turbata dal fatto che il padre naturale di Thomas è un bell’uomo scapestrato che in gioventù è riuscito a far girare la testa alla dolce e ben educata Beth, figlia della poderosa e inflessibile dominatrice della famiglia pecoraia, La regina delle greggi, che a ben altre nozze l’aveva destinata.

Il matrimonio non è potuto durare, il bel Burton padre ha scelto la libertà e Beth ha trovato un nuovo marito nel solido (ma quanto torbido…) allevatore di vacche di cui sopra, che ha accolto in casa sua il bambino di primo letto, non senza però una discreta freddezza e durezza.

Una vita tutto sommato tranquilla, è il caso di ripetere. Che però a un certo punto va letteralmente in frantumi quando dalla cassetta della posta dello scrittore Thomas Burton emerge una lettera in cui una certa Amy dichiara di essere nientemeno che sua sorella di sangue, figlia come lui dello scapestrato Ben Burton e della dolce Beth. Ma, diversamente da lui, abbandonata al suo destino in un ospedale subito dopo la nascita e adottata.

Thomas Burton non ci può credere, non può credere a un simile comportamento da parte della dolcissima madre. La quale comunque non vive nemmeno più, è morta. Thomas nega (soprattutto a se stesso), cerca di traccheggiare, spera che l’intrusa rinunci alle sue ricerche genealogiche, si metta il cuore in pace e sparisca.

Invece è lui che non riesce a mettersi il cuore in pace. La mamma non c’è più, ma c’è ancora uno stuolo di vecchie zie a cui chiedere cautamente notizie. E con altrettanta cautela le zie cominciano a rispondere, a concedere qualche vago indizio, in un tono sempre dolcemente svampito, ma proprio per questo sempre meno incredibile.

Così lo scrittore Thomas Burton, alter ego di Thomas Savage, risale di generazione in generazione nella storia delle sue due famiglie, ma soprattutto in quella materna, quella della durissima Regina delle greggi, inflessibile e abilissima negli affari. In cerca di una verità bruciante ma liberatoria.

E di nuovo il lettore è incantato dai grandi scenari del Mid West, Montana e Idaho, con i loro pascoli e le loro montagne, lo Spartiacque Continentale, e il carattere duro, chiuso ma in fondo anche un po’ svitato dei suoi abitanti. Con l’aggiunta di paesaggi dei due oceani, Seattle e il Maine.

Paesaggi grandiosi ma anche capaci di grande tetraggine, tetraggine che, diversamente dall’altro romanzo, in La regina delle greggi è temperata da squarci di finissima ironia, che, stranamente, fanno venire in mente certe scene di famiglia di Anne Tyler, che però sono di molto successive. Questo soltanto per confermare la posizione centrale di Thomas Savage nella grande letteratura americana, come possibile figlio e a sua volta possibile padre di altri scrittori. 

lunedì 26 gennaio 2015

Mia audio intervista del 1987 per Radio Svizzera Italiana

Ho trovato tra le mie impolverate ma carissime cose di ottimo gusto l’audiocassetta di un’intervista che mi è stata fatta in gennaio 1987 dalla Radio Svizzera Italiana. Non me la ricordavo affatto, l’ho riascoltata e l’ho trovata di una formidabile attualità ancora dopo 28 anni.

Vi parlavo anche di politica internazionale e “vita dopo la vita”, due miei pallini.

L’occasione era la pubblicazione presso Longanesi & C. del mio romanzo “La civetta sul comò”, che un paio di mesi fa ho ripubblicato su Amazon in formato Kindle con il titolo “L’araba fenice”, che era quello proposto da me all’origine ma rifiutato per misteriosi motivi dall’editore Mario Spagnol (grandissimo editore, comunque).

Dura una ventina di minuti, se vi interessa potete ascoltarla sul Mio Sito Web



La copertina dell'edizione formato Kindle





giovedì 15 gennaio 2015

Two spoken interviews with Wilbur Smith

I have added 2 spoken interviews to my Web Site.
They are with famous bestseller writer Wilbur Smith, from 1995 and 2011.
You can see them on their Web page




Wilbur Smith and me in Milano 

martedì 13 gennaio 2015

Online my first 2 spoken interviews with VIPs

I put online on my Web Site my first two interviews in voice, converted from audio cassette to .mp3 & .ogg files. They are in english, so I write this post in that language.

1) Interview with writer William Golding, Nobel Prize 1983, done in London, November 11, 1983

2) Interview with writer Orhan Pamuk, Nobel Prize 2006, done in Istanbul, August 2, 1995
(please note the date: almost nobody at that time knew Mr. Pamuk

You can hear them (both around 45 minutes) clicking here

I think they are pretty interesting.

More to come: I must convert the cassettes to the electronic format, which means exporting them from my Teac cassette recorder to my Mac