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martedì 17 agosto 2021

Anni Settanta. Sahara algerino. Un'amica afghana. Ahimé, che fine avrà fatto?


Dal mio "Güle güle. Parti con un sorriso:














« Intanto però assisto a un altro miracolo dell'economiadi scambio sahariana. Siccome gli aerei non atterrano, la banca è rimasta senza liquidi. Ma a nessuno fa né caldo né freddo. In cambio delle nostre banconote europee il soffocante bugigattolo bancario emette tanti minuscoli foglietti di carta con scritto a mano quanto valgono. Il tutto garantito da un timbro. I negozianti li accettano senza battere ciglio, dandoci come resto altri foglietti timbrati di valore più piccolo oppure rilasciandoci note personali di credito, garantite dal loro nome. Le accettano tutti, anche il Bibendum, che continua allegrissimo a darci kuskus condito con pacche sulla schiena. Le accetta anche il benzinaio. L'unico problema è riuscire a finirle tutte mentre si è lì, poiché si tratta evidentemente di una micro-economia monetaria autarchica a brevissimo raggio. Diventiamo tutti molto bravi a fare i conti al centesimo di dinaro. Ma riuscirò mai a ripartire?


Non ne dubito, prima o poi un aereo passerà, atterrerà, mi caricherà e mi riporterà ad Algeri. Da lì all'Italia sarà uno scherzo. Alla Pro Loco mi hanno assicurato che i foglietti della banca saranno accettati anche in cambio di un biglietto dell'Air Algérie. Ma c'è un problema: se il sospirato Convair non atterra in un lasso di tempo ragionevole, mi rimarrà sufficiente valuta europea per recarmi alla banca e farmela convertire in un numero di foglietti sufficienti a comperare il biglietto? Sono francamente preoccupato.


Invece non ne ho motivo. I djinn delle pitture rupestri hanno molto approvato il mio comportamento e deciso di aiutarmi. Una sera, mentre seduto sotto una palma sto per l'ennesima volta facendo i conti del mio eseguissimo peculio, vedo entrare nel cortile delle zeribas una Land Rover lunga con targa francese. Provo un moto di sollievo e speranza, che però si converte subito in sgomento. Dalla camionetta smontano, uno dopo l'altro, cinque passeggeri. Un uomo, tre ragazzi e una ragazza, bellissima. Se non c'era posto sull'auto della reincarnazione di Lord Kitchener, che viaggia da sola, e non ce n'era neanche su quelle dei teneriani, che viaggiano a due a due, com'è possibile che mi carichi un'auto che ha già cinque passeggeri? Inoltre i cinque saranno diretti a Nord o a Sud, a Est, a Ovest?


La sera ci troviamo soltanto loro e io a cena dal gargottaro pneumatico e ambiguo. Attacchiamo subito discorso e tra noi nasce un'immensa simpatia. Sono un padre, due figli, un cugino. La ragazza, oltre a essere la fidanzata del più grande dei figli, è addirittura parente del re dell'Afghanistan, ha vissuto parecchio tempo a Roma e parla perfettamente l'italiano, oltre che l'inglese, il francese, l'afgano e chissà quante altre lingue, compreso un arabo evidentemente perfetto, visto il modo deferente in cui Bibendum e servetti pendono dalle sue labbra.


L'esperienza mi ha ammaestrato. Non dico che sto cercando un passaggio, ma che sto aspettando l'aereo da un secolo e sono un po' stufo. Aereo? mi chiede il padre con l'aria di un discendente del Re Sole. Venire fino a qui per poi andarsene in aereo? Non è meglio in auto?


Non ho dubbi che sia meglio, più avventuroso, interessante, emozionante eccetera eccetera, ma l'auto non ce l'ho, quindi bisogna che qualcuno mi porti. E, a quanto pare, qualche camion fa la spola fra qui e Tamanrasset, ma non affrontano la pista del Nord. Come faccio? Sono costretto, violentato, forzato a prendere l'aereo.


Vieni con noi, dice semplicemente il francese. Domani partiamo per il Nord.

Signori Mahaim, ho invaso la vostra Land Rover e bevuto la vostra acqua. Poi ho afflitto anche le vostre case di Parigi e in Bretagna, ospitandovi in cambio nella mia temporanea dimora di Firenze. Qualche anno più tardi ci siamo inopinatamente incontrati di nuovo alla Fiera del Libro di Francoforte, ma poi ho perso le vostre tracce, non vi trovo nemmeno in Internet. Chissà mai che questi miei lontani ricordi non possano servire a ritrovarvi. La gratitudine che ho per voi è eterna, vorrei esprimervela ancora una volta di persona. Amen.

lunedì 28 gennaio 2019

La Giornata della Memoria

Giornata della Memoria. Qui io con mio padre il 26 agosto 1943, in un posto terribile: Fossoli. Di lì a poco per migliaia di infelici ebrei quel luogo sarebbe diventato l’anticamera del campo di sterminio.

Si badi bene, noi NON siamo ebrei (non avrei niente in contrario ma non mi risulta). In quel momento Fossoli era  un campo di concentramento italiano per prigionieri di guerra di lingua inglese o russa. Mio padre, soldato semplice, era stato messo lì un po’ per fare da interprete, ma soprattutto per tenerlo d’occhio, perché di lingua madre inglese e cresciuto a Londra, dove aveva ancora madre e due sorelle.

Di lì a qualche giorno, non so se lo stesso fatidico 8 settembre o poco dopo, gli è stato ingiunto di aderire alla repubblica di Salò. Lui ha rifiutato. Da carceriere si è ipso facto trasformato in carcerato. Rischiando quindi di partire per qualche campo “di lavoro” tedesco. E magari mia madre e io con lui.

È riuscito a scappare dal campo con alcuni prigionieri russi tagliando la rete, ci ha raggiunto e rocambolescamente portato fino a casa di suo padre, in provincia di Como, da dove, essendo un disertore e quindi passibile di fucilazione, si è rifugiato in Svizzera. (E non pare che gli svizzeri si siano comportati con quegli esuli meglio di quanto si stanno comportando certi luridi personaggi italiani nei confronti degli esuli di oggi.)

Quel terrificante viaggio in bicicletta e treno è il primo ricordo che porto inciso nella mente: avevo poco più di quattro anni. Soltanto un ricordo, che ho voluto aggiungere qui in questa giornata di vergogna universale in memoria dell’onestà e del coraggio di mio padre. Noi quattro Biondi non siamo MAI stati fascisti, io, unico rimasto, non lo sarò MAI!

venerdì 17 febbraio 2017

Deir ez-Zor, Siria, nella morsa dell’Isis. E nessuno ne parla. Ecco come l’ho vista più di 30 anni fa


Dal mio “Strada bianca per i Monti del Cielo. Vagabondo sulla Via della Seta”
(La foto l’ho ripresa da un articolo del coraggioso giornalista Fulvio Scaglione, uno dei pochissimi a parlarne)

« Sul nastro di asfalto che continuando da Aleppo corre lungo la riva destra dell'Eufrate mi inoltrai un giorno d'estate dei primi anni Ottanta. Essendo stato letteralmente buttato fuori dall'ambasciata irachena di Roma quando avevo osato chiedere un visto, volevo comunque avvicinarmi il più possibile ai confini di quell'impenetrabile paese, se non altro per vedere Doura Europos e Mari, oltre a Rasafa, in territorio siriano. Il posto giusto dove fare tappa era ed è tuttora Deir ez-Zor. Vi trascorsi una serata bellissima.
La mia prima meta era stata Rasafa, anche scritto Resafa, Rosafa o Rusafa. Roseph per la Vulgata e Sergiopoli per i romani: la patria di San Sergio. Erano molti anni che ci volevo andare, fin da una delle mie prime visite a Istanbul e a quella che attualmente è chiamata Piccola Santa Sofia, la Chiesa dei Santi Sergio e Bacco, divenuta moschea.
Rasafa è stata una delle grandi città romane del Crescente Fertile, capitale della provincia Augusta Euphratensis, dopo la caduta di Doura Europos in mani persiane, e di ricchezza pari alla Palmira della regina Zenobia. I resti sono molto estesi ma purtroppo altrettanto poveri, anche se sfavillanti di un miracolo di frammenti di mica. Uno straordinario baluginare di specchietti tra la sabbia sotto il sole sfolgorante di Siria.
Abbagliato, capii di punto in bianco il senso di una frase che avevo letto tempo prima, coniata da Andrè Parrot, archeologo francese e primo direttore del Louvre, scopritore di Mari nel 1933: «Ciascuno ha due patrie: la sua e la Siria».
Arrivato di pomeriggio nella piacevole Deir ez-Zor e concessomi un po' di riposo, sul far della sera uscii e, fatto un giro nel bazar, andai a cena. Rinfrancato dal solito ottimo cibo siriano, mi aggirai qualche minuto per il centro che si stava facendo buio, finché mi accorsi che tutti andavano nella stessa direzione. Mi accodai.
Arrivammo a un corso d'acqua, dove la temperatura calò di colpo di diversi gradi, facendosi fresca e gradevolissima. Era l'Eufrate. Attraversato da un ponte che mi fece mancare il fiato, una replica in sedicesimo del Golden Gate di San Francisco. Piccolo piccolo ma tale e quale. Lo hanno costruito i francesi negli anni Venti, quando la Siria è stata loro affidata con la formula del mandato dopo aver scacciato verso l'Iraq il grande protetto di Lawrence d'Arabia, lo hashemita sceicco Feisal, diventato per pochissimo tempo re di Siria e poi spedito a farsi assassinare come re del neo assemblato Iraq. Uno dei più tremendi pasticci colonialisti combinati da britannici e francesi in combutta. Una polveriera che sta ardendo ancora e non smetterà probabilmente mai.
Perché i francesi avranno costruito il ponte di Deir con quella forma, invece di fare una replica in piccolo di uno dei loro? Chissà. E quanto sarà largo? Pochi metri, infatti lo si percorre soltanto a piedi. Ma nelle sere d'estate era la meta preferita di tutti gli abitanti della cittadina. Erano lì che andavano avanti e indietro, e io con loro. Che bel posto. E che straordinaria capacità hanno le popolazioni desertiche di non sprecare parole e quindi alito, e quindi umidità interna. Passeggiare in mezzo a quel mormorio e a quello svolazzare di indumenti orientali era bellissimo.
Ci misi poco a rendermi conto che la popolazione giovane, almeno quella di sesso maschile, era divisa tra modernisti e tradizionalisti. I primi in jeans, i secondi nelle loro splendide gellabe bianche o azzurre. Facevo finta di niente, ma ero perfettamente consapevole di averne alle spalle un gruppo che mi seguiva timidamente da diversi minuti. Frequentavo da abbastanza tempo quelle terre per sapere quanto isolate siano dalla cattiva coscienza internazionale, e quanta voglia abbiano i loro giovani di comunicare con lo straniero.
Visto che non osavano prendere l'iniziativa, la presi io. Arrivato circa a metà del ponte feci un improvviso dietrofront che mi mandò quasi a sbattere contro di loro. Il gruppo si aprì per accogliermi, e per un'oretta – o forse più – fui uno di loro, l'amico adulto tornato da lontano, il fratello rientrato dall'emigrazione. Conoscevano in diversi il francese. Di che cosa parlammo? Chi lo sa. Di tutto e di niente. Molti di loro reggevano per il manubrio certi biciclettoni cinesi neri che così alti non credo di averne mai visti prima (li ho rivisti poi appunto in Cina).
Vollero sapere se preferivo quelli di loro in jeans o quelli in gellaba. Ero inesorabilmente destinato a creare dispiacere a una parte di essi, per cui cercai di traccheggiare, ma non ci fu niente da fare: esigevano una risposta. Non sono mai stato capace di mentire, e poi perché farlo, visto che comunque avrei dato una risposta poco gradita a una parte di loro? Risposi onestamente che mi piacevano di più quelli in gellaba. I visi dei modernisti si fecero lunghi. Mi spiegarono in toni accorati che avevo torto, che per evolversi è indispensabile essere moderni e quindi vestirsi come ci si veste nei paesi sviluppati. Per fortuna non sapevano ancora che nei paesi sviluppati si scolorivano e stracciavano apposta indumenti perfettamente nuovi in nome della moda.
Mi salvai in un complicato corner spiegando che, certo, avevano ragione, ma dalle mie parti nessuno portava la gellaba, per cui per me era una novità, e di conseguenza suscitava in me maggior interesse. Potevo aggiungere che quegli indumenti facevano forse emergere dal fondo del mio inconscio le ombre dei presepi infantili? Davvero non avrebbero potuto capire. Mi accompagnarono fin sulla porta dell'albergo e mi strinsero tutti la mano, a uno a uno, con le belle dita sottili e nervose che hanno soltanto quelle popolazioni.
Come mi piacerebbe, un giorno, avere occasione di andare ancora una volta fin laggiù, a Deir ez-Zor, sulla riva dell'Eufrate, per vedere se di sera si passeggia ancora in quel modo, e se i ragazzi sono ancora così gentili e così equamente divisi in jeans e gellabe. E poi, magari, il giorno dopo, poter proseguire per un Iraq finalmente lasciato libero di governarsi e di godere delle sue ricchezze…»

venerdì 15 luglio 2016

I "donzelli" del Veglio della Montagna…

Il Castello di Alamut (Iran) oggi

Così Marco Polo nel Milione. Ma adesso? Da dove partono? Chi li manda?

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Del Veglio de la Montagna e come fece il paradiso, e li assassini.

Milice è una contrada ove 'l Veglio de la Montagna solea dimorare anticamente. Or vi conterò l'afare, secondo che messer Marco intese da più uomini. 
Lo Veglio è chiamato in loro lingua Aloodin. Egli avea fatto fare tra due montagne in una valle lo piú bello giardino e 'l piú grande del mondo. Quivi avea tutti frutti (e) li piú begli palagi del mondo, tutti dipinti ad oro, a bestie, a uccelli; quivi era condotti: per tale venía acqua a per tale mèle e per tale vino; quivi era donzelli e donzelle, li piú begli del mondo, che meglio sapeano cantare e sonare e ballare. E facea lo Veglio credere a costoro che quello era lo paradiso. E perciò 'l fece, perché Malcometto disse che chi andasse in paradiso, avrebbe di belle femine tante quanto volesse, e quivi troverebbe fiumi di latte, di vino e di mèle. E perciò 'l fece simile a quello ch'avea detto Malcometto; e li saracini di quella contrada credeano veramente che quello fosse lo paradiso. 
E in questo giardino non intrava se none colui cu' e' volea fare assesin[o]. A la 'ntrata del giardino ave' uno castello sí forte, che non temea niuno uomo del mondo. Lo Veglio tenea in sua corte tutti giovani di 12 anni, li quali li paressero da diventare prodi uomini. Quando lo Veglio ne facea mettere nel giardino a 4, a 10, a 20, egli gli facea dare oppio a bere, e quelli dormía bene 3 dí; e faceali portare nel giardino e là entro gli facea svegliare. 

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Quando li giovani si svegliavano e si trovavano là entro e vedeano tutte queste cose, veramente credeano essere in paradiso. E queste donzelle sempre stavano co loro in canti e in grandi solazzi; e aveano sí quello che voleano, che mai per loro volere non sarebboro partiti da quello giardino. E 'l Veglio tiene bella corte e ricca e fa credere a quegli di quella montagna che cosí sia com'è detto. 
E quando elli ne vuole mandare niuno di quegli giovani ine uno luogo, li fa dare beveraggio che dormono, e fagli recare fuori del giardino in su lo suo palagio. Quando coloro si svegliono (e) truovansi quivi, molto si meravigliano, e sono molto tristi, ché si truovano fuori del paradiso. Egli se ne vanno incontanente dinanzi al Veglio, credendo che sia uno grande profeta, inginocchiandosi; e egli dimand[a] onde vegnono. Rispondono: «Del paradiso»; e contagli tutto quello che vi truovano entro e ànno grande voglia di tornarvi. E quando lo Veglio vuole fare uccidere alcuna persona, fa tòrre quello che sia lo piú vigoroso, e fagli uccidire cui egli vuole. E coloro lo fanno volontieri, per ritornare al paradiso; se scampano, ritornano a loro signore; se è preso, vuole morire, credendo ritornare al paradiso. 
E quando lo Veglio vuole fare uccidere neuno uomo, egli lo prende e dice: «Va' fà cotale cosa; e questo ti fo perché ti voglio fare tornare al paradiso». E li assesini vanno e fannolo molto volontieri. E in questa maniera non campa niuno uomo dinanzi al Veglio de la Montagna a cu'elli lo vuole fare; e sí vi dico che piú re li fanno trebuto per quella paura…