domenica 26 gennaio 2020

Le auto del Sahara


Assekrem









Leggo un articolo sulle auto più strane che hanno partecipato alla Parigi - Dakar e mi viene in mente la scena che ho raccontato nel mio Güle güle. Parti con un sorriso. Assekrem, montagne nel cuore del Sahara algerino, primi Anni Settanta del Novecento…

Incontro nella sabbia
«Dopo essere rimasto qualche istante seduto a contemplare il farsi sempre più luminoso di milioni di stelle nella cupola buia del cielo, decido di allontanarmi di quattro passi tra le rocce, non senza essermi messo le calze e aver infilato i pantaloni lunghi dentro le finte desert boot, a labile difesa contro malintenzionati denti di serpe o aculei di scorpione ("C'est l'Afrique..."). Mi inerpico di qualche metro per guardare oltre un dosso. Non ho la più vaga idea di dove io mi trovi, né di dove siano i quattro punti cardinali.
Finito di inerpicarmi, guardo. Guardando, vedo. In una valletta a colori rossastri e verdi, illuminata dai lampi e dai bagliori di un inferno artificiale wagneriano, si sta svolgendo una scena da Oro del Reno, un lavoro da Nibelunghi. Lampi e bagliori provengono da fiamme ossidriche in furiosa funzione. I Nibelunghi non sono però tedeschi ma francesi. Hanno disposto un numero imprecisato di 2CV a formare un cerchio come un accampamento di coloni del West, e al centro del medesimo lavorano come ossessi, cicalando, gridandosi ordini e consigli, qualche sonora bestemmia. Sono troppo lontani perché io possa capire con esattezza.
Mi sento una mano su una spalla. È il ragazzino Beluba, con il sorriso dei suoi denti radi.
«Che cosa fanno?» gli chiedo.
«Ils travaillent» risponde con una scrollata di spalle. Ho già capito da un pezzo che niente riesce a stupirlo. E mi invita a raggiungere l'Halimi al sabbioso desco a base di kuskus e caprone. Lui, povera anima schiava, sembra nutrirsi solamente di datteri.
Quella sera la conversazione ristagna. Il gelo dei ben oltre 2.500 metri desertici di altitudine impera, unito alla scarsità di ossigeno. Siamo stanchi e ci dobbiamo alzare prima del sole, per salire a vedere l'alba sulla vetta (io) e per portare ai dispensieri dei monaci le loro provviste (le mie due guide). Mi addormento di schianto nella coperta che ho comperato ad Algeri per usarla come sacco a pelo, e altrettanto di schianto mi sveglio al primo barlume di luce.
Già Halimi sta mettendo in moto. Partiamo immediatamente. Abbiamo poche centinaia di metri da percorrere, ma tutti in prima e non so con quali e quante ridotte. Sfiliamo affannati di fianco all'accampamento dei Nibelunghi francesi, anche loro occupati nelle operazioni del risveglio. Molte mani si levano a salutarci. E appare finalmente chiaro lo scopo del loro lavoro.
No, non hanno fabbricato l'Anello di Alberich. Molto più semplicemente hanno per tutta la notte tagliato, segato, saldato e ricostruito, facendo di un paio di 2CV un unico automezzo, metà grigio e metà rosso, che simile al vitello d'oro occhieggia altero dal centro del cerchio…»