giovedì 21 aprile 2016

A proposito di "romanzo - romanzo"…







I cinque finalisti del Premio Campiello 1985:
Montefoschi, Montesanto, Pazzi, Tabucchi, Biondi

Vedo che sta tornando in auge l’espressione “romanzo-romanzo”. Mi fa molto piacere, visto che il primo a coniarla (e non senza subire dure reprimende) sono stato io nella prima metà degli anni 1980, per cercar di spiegare il tipo di romanzo che intendevo fare. Un tipo di romanzo praticamente vietato dalle sinforose dello striminzito “esercizio di stile”.
Eccone qui un esempio in un articolo che mi è stato chiesto dal Gazzettino di Venezia nell’agosto 1985 per presentare il mio “Gli occhi di una donna” in vista della finale del Premio Campiello (è stato chiesto a tutti e cinque i finalisti).
«Hai osato l’inosabile», mi aveva tuonato telefonicamente nell’orecchio il bizzarro Carlo Vigorelli dopo aver ricevuto e letto la sua copia d’obbligo in quanto giurato tecnico del Premio…
Romanzo-romanzo, già…



Era una luminosa domenica di fine primavera, qualche anno fa, sopra Bellagio, a cavallo dei rami del lago di Como. Nel giardino dell’antica dimora gentilizia l’anziana dama, dominatrice incontrastata della casa e della famiglia, aveva creato un silenzio religioso semplicemente mettendosi a raccontare. Con la sua voce appena incrinata dall’età e con un tono arguto, ironico, capace di incantare, narrava lontane vicende lombarde: amori, matrimoni, mésalliances. Vera narratrice onnisciente, non ignorava e non tralasciava nulla. Cognomi e nomi, nascite e morti, vite e miracoli fluivano tra un ondeggiare spiritoso di capelli quasi candidi. Che donna straordinaria. E che occhi.
Con precisa dovizia di particolari, a un certo punto si dilungò sulla complessa vicenda matrimoniale di una certa figliola della grande industria lombarda con un vivace rampollo dell’aristocrazia lombarda più antica. Una vicenda da cui era disceso un cospicuo numero di eredi e problemi. «Tutto sommato», concludeva la narratrice prima di passare ad altro succulento e ormai innocuo pettegolezzo postumo, «si vede che Dio li aveva fatti perché stessero insieme. E in definitiva non si sono poi neanche trovati tanto male. Se non fosse stato per il modo come si è concluso il loro matrimonio…» Un modo davvero singolare, non certo da vite comuni. Da romanzo, caso mai. Un piccolo scandalo, tra il boccaccesco e il tragico, che qui non c’è bisogno di riferire.
Stentavo a credere alle mie orecchie, alla straordinaria fortuna che mi si presentava: avevo a disposizione, bell’e pronta, soltanto da infiocchettare un po’, la fine di un romanzo. E per le mie «ricette di fabbricazione» la fine è un ingrediente fondamentale: mai mettersi a scrivere una storia se non si sa come va a finire. Sarà poi un grandissimo divertimento inventare gli svolgimenti, le trappole e i sotterfugi necessari per ritardare e complicare il più possibile l’arrivo di tale fine. Così, nell’inseguimento, dopo l’autore si divertirà anche il lettore.
Dunque disponevo della fine di un romanzo. Potevo cominciare a lavorare. Bisognava pensare un attacco. Chiesi permesso e, immerso in rosei pensieri, uscii dalla cerchia d’ombra della secolare farnia che dava frescura alla compagnia, inoltrandomi nel prato, verso il bosco. Venni richiamato al presente da un nitrito sonoro. Una giumenta bionda, quasi bianca, si muoveva solenne nel suo recinto, cercando di scacciare a colpi di coda le mosche che l’assediavano e a calci secchi il pony che la seguiva testardo. Mi riscossi dai miei pensieri con un trasalimento. L’antica dimora gentilizia, la farnia, il prato, il lago, il bosco, la bella giornata, la giumenta… Disponevo anche di un possibile inizio di romanzo. Bisognava trovare il protagonista.
Un protagonista che — sempre secondo le mie «ricette di fabbricazione» del romanzo — non deve essere un superuomo, un eroe con cappa e spada, un personaggio del destino, ma un comune essere umano, testimone di tutti gli eventi dominanti del romanzo. Un personaggio, cioè, che non “crea” la vicenda, ma senza la cui presenza essa non avrebbe ragione di essere, non sarebbe nemmeno pensabile. Mi erano rimasti fissi nella memoria, incisi, gli occhi della squisita padrona di casa. Quante cose avevano visto. Oltre tre quarti di secolo di Storia con la “S” maiuscola. Da tempo desideravo confrontarmi con una figura femminile di rilevante importanza romanzesca, e l’occasione sembrava straordinariamente propizia. Una donna, dunque, davanti ai cui occhi scorresse e si intrecciasse il reticolo di eventi che avrebbe dovuto condurre lo scrittore (e per il suo tramite anche il lettore) da quel cielo del lago di Como — «splendido, in pace» —, dalla giumenta nel suo recinto, su quel prato ai margini del bosco, fino alla conclusione di un matrimonio non perfettamente assortito ma di lunga durata: una conclusione singolare come quella raccontata dall’anziana signora, anche se ovviamente del tutto rielaborata e resa definitivamente romanzesca. Così, in pochi minuti di un pomeriggio di sfolgorante luce lariana, era nato l’abbozzo di quello che sarebbe diventato il romanzo Gli occhi di una donna.
L’ambientazione era obbligata, oltre che amatissima: il Lago di Como, sopra Bellagio, e Milano. Il periodo, più o meno quello che andava dalla Prima Guerra Mondiale fino al secondo dopoguerra. Con un finale che vedesse la “donna degli occhi” arrivata a un’età quasi pari a quella della straordinaria narratrice che mi aveva fatto balenare l’idea. Bisognava mettersi a lavorare. Per molto tempo le biblioteche divennero un’appendice della stanza dove solitamente lavoro. Occorreva inventare in tutti i dettagli due famiglie, una di “grande industria” e l’altra di “antica aristocrazia”, con antenati, fortune, dimore, parenti, frequentazioni. Con radici nei secoli. Nacquero così gli industriali Lucini e gli aristocratici Olgiati Drezzo. Si inventarono il villaggio di Prato Sant’Antonio e la Farnia. Davanti alla mia immaginazione si accalcarono bisnonni e nonni, padri e madri, zii e cugini. Si perpetrarono signorilissimi sperperi di antichi patrimoni gentilizi e, sul versante opposto, si compirono oculati accumuli di beni “borghesi”. Nacquero da una parte Emma (aspirando, non piccola immodestia giovanile d’autore, ad aggiungerne un’altra alla schiera di quelle che già avevano nobilitato la storia della letteratura: Emma Bovary, Emma Woodhouse…) e dall’altra Luca Giorgio, destinati per contorta e romanzesca volontà del fato narratore a diventare moglie e marito.
Si dovettero studiare storia e ambienti della Grande guerra e della Seconda guerra, della ricostruzione industriale postbellica. Seguirono dolori, amori, matrimoni, nascite, morti, complicazioni, contrasti, figli, nipoti, stranezze, oculatezze, imprudenze: insomma, un romanzo-romanzo, con tutte le carte in regola e gli ingredienti canonici. E via e via e via, fino ai giorni che stavo vivendo mentre scrivevo, quando ancora gli occhi di Emma Lucini, che tanto avevano visto come quelli dell’anziana dama ispiratrice della vicenda, avevano modo di assistere a fatti e misfatti degli ultimi eredi delle due famiglie, sempre lì, tra Milano e il lago di Como, a calcare le scene di un romanzo, che non sono poi tanto diverse da quelle della nostra vita.

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