lunedì 23 agosto 2021

L'Alessandrina. Storia di casini

Di questi tempi pare che di sesso non si possa fare a meno di infilarne a bizzeffe in qualsiasi storiella, per quanto banale. Tonnellate di masturbazione, quintali di fellazione. Va be'. A me molto male incolse quando, in un romanzo perbene dei primi anni Novanta, mi permisi di dissertare sulle case chiuse d'Italia (prima che diventassero "aperte" ovvero fossero chiuse sul serio). Che scandalo, che vergogna, soprattutto  le signore lettrici, indignate, furibonde…

P.S. Nella foto il portone di quello che era il Dollaro, a Como, dove ho lasciato distrattamente la verginità, nel 1957. Per 1000 lire…

Dal mio Due bellissime signore (ovvero: Destino, 2a parte)

« In un mese imprecisato del 1510 il signor Pietro Boldoni, borghese di Bellano, località famosa per l’attrazione rappresentata dall’Orrido, aveva portato a Como un “molendinum seu turnum”, ovvero, insomma, un mulino da seta, dando avvio alla prima forma più o meno organizzata di produzione del prezioso tessuto nella zona. Perciò, a far tempo dal 1887, in quanto “introduttore dell’arte serica”, la città, grata, gli aveva dedicato quella che fino ad allora si era chiamata Contrada dei Tre Prestini alle Cinque Vie, o anche Contrada della Virtù: una via che a un capo si apriva in uno slargo. Via Boldoni e, per estensione, piazzetta Boldoni.

Alla famiglia dei nobili Volpi, invece, la città era grata per motivi di storico prestigio. Un Girolamo cosmografo e poeta. Un Giovanni Antonio vescovo e inviato al Concilio di Trento. Un Ulpiano arcivescovo di Rieti e nunzio apostolico. Un Giampietro vescovo di Novara. Gente di una pietas a prova di bomba, a cui la città aveva ritenuto suo preciso e pio dovere dedicare la via nota un tempo come “Contrada dell’Onor Patrio” e poi “della Caserma Volpi”.

Bene: chi alla metà del Ventesimo secolo saliva dal lago verso San Fedele e Portatorre attraverso via Boldoni, se appena appena deviava distrattamente un po’ sulla sinistra entrava in via Volpi già Contrada Caserma già Contrada dell’Onor Patrio. Dove, in spregio a ogni nobile pietas e persino prudenza, ai civici numeri 5 e 7 aveva sede un onorato casino. Un postribolo, per quanto elegante. Un lupanare, per quanto ben frequentato. Proprio nella via dei piissimi Volpi? Chissà perché. Forse in considerazione degli antichi nomi della suddetta via Volpi e del fatto che chi sta in Caserma, avendo poco tempo da perdere poiché deve dedicarsi giorno e notte all’Onor Patrio, ha frequentemente bisogno di rapido ed esperto sollievo per la carne.

Insomma: era in questo onorato locale che concedeva i propri favori secondo tariffario l’Alessandrina. Rispettabile e apprezzata cortigiana che aveva saputo non buttarsi via. Eh, no. Al contrario: aveva saputo trattarsi bene. Bastava fare i conti. Dal giorno in cui aveva messo piede per la prima volta in una “casa” erano passati poco più di vent’anni. E il suo unico figlio, luce dei suoi occhi, ne aveva appena compiuti ventuno. Dunque non ci sarebbe stato da offendersi se qualcuno avesse detto che non era più una bambina. Sarebbe stato poco signore, un villano da trattare con le pinze, ma niente di più.

Era ancora una gran bella donna. Piaceva. Proprio magra non era mai stata, ma nemmeno grassa. Aveva le sue belle forme, ben conservate. Quando si metteva lì sul suo scranno, drappeggiata come le avevano insegnato due decenni di onesta professione, in modo da lasciar vedere e non vedere, gli uomini se la mangiavano ancora con gli occhi.

Perciò davanti a lei non si era mai aperta — né mai si sarebbe aperta — la fossa dei leoni. Il giro delle marchette a mille lire, via uno avanti l’altro. Il girone d’inferno delle case da battaglia. Militari di leva, teppa, apprendisti magnani, bifolchi che il sapone non sapevano nemmeno che cosa fosse. Il Poslaghetto, a Milano. Lo Squarciafico, a Genova. Via dell’Amorino, a Firenze. Più in giù, poi, chissà che cosa c’era. Quaranta al giorno, un colpo di straccio e via. Brrr. Per le povere disgraziate che precipitavano fino a lì in caduta libera non c’era salvezza. Piano piano finivano in Grecia, in Turchia, in Libano, in Egitto. Se non marcivano del tutto strada facendo.

Lei, invece, Elvira Cavaglia, detta l’Alessandrina per via della città d’origine — che non era affatto in Egitto ma in Piemonte —, dopo vent’anni di impeccabile servizio era ancora lì, nel giro alto. Nessuno aveva mai avuto motivo di lamentarsi di lei. Anzi, grazie a Dio i regalini extra che era riuscita a vendere o a nascondere in banca le avevano consentito di tirare grande il ragazzo senza che capisse niente. Era per lui, nato senza il cognome di un padre, che era stata costretta a fare il più antico dei mestieri.

Comunque il futuro si presentava tranquillo. Esentato dal servizio militare, il ragazzo lavorava in fabbrica già da un bel po’, e fra qualche anno lei avrebbe potuto raggiungerlo, ritirarsi, godersi l’ultimo scampolo di vita prima della vecchiaia e di quello che inevitabilmente la segue.

Per intanto continuava con il suo giro alto. A Milano il Disciplini, con gli alti troni dorati studiati apposta per procedere con comodo a certi servizi per così dire di bocca buona. Oppure il San Pietro all’Orto, con i suoi specchi a uso dei signori che più che fare gli piace guardare. O il Porlezza, con tutta la sua gente “su”: giornalisti, letterati, pittori. O l’Alberto Mario, quando aveva avuto bisogno di rifarsi i denti: la direzione, che le voleva sempre impeccabili, aiutava le signorine a pagarsi l’odontoiatra.

A Pavia il Grotta Azzurra, sempre pieno di studentelli universitari con tanta fame e pochi soldi, che le ricordavano il suo ragazzo, nascosto su ad Alpignano dagli zii, e la riempivano di istinti materni. Certe volte, con loro, non stava a guardare troppo il tempo, così poi la signora la sgridava. Ma di rado. Erano talmente spaventati, poveri ragazzi, che di solito in un momento era fatta. Qualche volta, però, avevano dei problemi, e bisognava avere un po’ di pazienza. Poi, appena fatto, scappavano come se avessero visto il diavolo sbucare di punto in bianco dal bidet appoggiato sul suo treppiede di metallo.

A Genova il Castagna. A Parma il Borgo Tasso. A Firenze la Rina.

E così via. Più giù di Firenze, comunque, l’Alessandrina non aveva mai avuto bisogno di andare, anche se per qualche tempo, agli inizi della carriera, un certo individuo aveva fatto di tutto per convincerla ad andare in una casa di Bari, dove, secondo lui, a ogni cambio di quindicina arrivava nientemeno che il re d’Albania con una valigetta piena di gioielli. Al Villino delle Rose. Una marchetta, quindici lire.

Bari? Con tutto il rispetto, per chi l’aveva presa quel margniffo? Dove poteva mai essere l’Albania? Che balla! Per fortuna gliel’avevano tolto di mezzo, che cominciava a farsi un po’ soffocante. Anzi, si era tolto di mezzo da solo. Storie di coltelli, roba con cui lei non aveva mai voluto avere niente a che fare. Il suo amore ce l’aveva già, ed era il figlio che cresceva ad Alpignano. Non era mai andata neanche a Roma, per quanto l’avessero richiesta un’infinità di volte dall”’Avignonese”. No, niente, non poteva allontanarsi troppo. E non voleva nemmeno.

Perciò adesso era lì, al Dollaro di Como, in via Volpi. Un locale di prim’ordine. Discreto, elegante, gente fine, signoroni svizzeri. Non come i posti dove poteva anche capitare di morire d’infarto durante il lavoro, quelli nascosti nel vicolo nientemeno che giù davanti al Duomo, pieni di gente senza rispetto. In Duomo lei ci andava la domenica mattina prestissimo, prima che arrivasse gente, entrando di sbieco dalla porta della rana, dalla parte del Bar Argentino, la testa quasi completamente coperta da un bel foulard scuro di seta, a pregare Dio che tenesse un occhio di riguardo sul ragazzo che cresceva, che gli desse i mezzi di andare in case perbene, visto che era nato maschio e che quindi certe cose doveva per forza (e per salute) farle anche prima di sposarsi. Certo, non case signorili come quelle in cui lavorava lei, ma almeno pulite. Oneste. Non in certe stalle, povera anima.

In altre città, Dio andava a pregarlo in Santa Maria delle Grazie, in Santa Maria del Carmine, in Santa Maria di Carignano, alla Madonna della Steccata.

Chiamandosi di secondo nome Maria, era naturale che Elvira Cavaglia avesse una predilezione per le chiese dedicate alla madre di Gesù, donna poco fortunata anche lei, ma non è che ce ne fossero sempre a disposizione dappertutto. A Pavia, per esempio, andava a San Pietro in Ciel d’Oro. In Piemonte, invece, per evidenti motivi, non andava mai. Né in chiesa né a lavorare. Ci mancava altro che, presa la paga settimanale e messo il vestito buono, al ragazzo venisse voglia di mettere il naso, tanto per dare un’occhiata, al Babi di Porta Palazzo, diciamo, e ce la trovasse lì.

Comunque fosse, fino a quel momento Dio l’aveva ascoltata. Non era stato Lui, in definitiva, a dire che non bisogna tirare neanche la prima pietra, che la vita e il peccato sono cose difficili da farci i conti, che a sbagliare si fa in fretta, mentre non sempre è possibile trovare un rimedio così sui due piedi?

Lei Lo pregava, e Lui ascoltava. Dopo vent’anni di onesta professione in giro per quelle case onorate, qualche diritto l’Alessandrina se l’era conquistato. Se non altro quello di andare in chiesa da sola, la domenica mattina presto, la faccia nascosta con cura per non offendere nessuno.

La donna sollevò il ventaglio e si fece stancamente aria, quindi, generosa, ritirò fino poco sotto l’inguine il velo che le copriva le cosce, a beneficio dei guardoni. Sotto, non portava niente.

Pomeriggio di fiacca. Gente che aveva voglia soltanto di fare flanella. Un ragazzetto terrorizzato, seduto in fondo al lungo divano centrale, quasi abbracciato al suo pacco di libri di scuola legati con una cinghia verde di gomma ridotta a un filo. Doveva avere compiuto diciott’anni quel giorno ed eccolo lì, puntuale come un cronometro svizzero, oltre che regolarmente con il cuore in gola. Ma che conforto potevano dargli i libri che si schiacciava sul ventre? Gli fece un sorriso. «Andiamo?», accennò appena con le labbra, piegando la testa di lato in direzione della scala.

L’espressione del ragazzo, da spaventata si fece infelice. Si alzò di scatto e si avviò per uscire. Una volta che si fu tolti i libri dal grembo, si vide chiaramente che era messo bene. I pantaloni lunghi erano strettissimi. Forse ancora i primi che gli avevano messo. Gli altri, quelli nuovi che gli erano sicuramente stati regalati per i diciotto anni, li avrebbe inaugurati la domenica seguente. E prima o poi sarebbe ricomparso sfoggiandoli, un po’ meno terrorizzato, più scafato, già sentendosi un veterano, magari addirittura con addosso un completo elegante, o in compagnia di un coetaneo, poveri verginelli. L’Alessandrina lo seguì con uno sguardo affettuoso fino alla porta, augurandosi che anche il suo ragazzo, a Torino, trovasse una donna comprensiva come lei.

Gli altri rimasero tutti a sedere, immobili come tante statue di gesso. Figuranti. Gente da bar. Pidocchietti da sala corse. Mezze tacche del contrabbando con la Svizzera. Uomini che di giorno non avevano niente di preciso da fare. Tra loro, nemmeno uno svizzero dal bel portafoglio pieno di franchetti. Guardavano. Guardavano. Nell’aria non si sentiva volare una mosca. Il silenzio era rotto soltanto dal fruscio dei ventagli e dei veli, da qualche sbadiglio represso. Dall’angolo normalmente occupato dalla Tosca si stava diffondendo un odore pulito di acetone. Le signorine ospiti del Dollaro si stavano annoiando. E, come insegnava l’esperienza, le cose non potevano andare avanti così ancora per molto. La signora, dal trono vicino all’ingresso da cui dominava la sala, aveva già invitato due volte i neghittosi visitatori a salire ai piani superiori. Decisa, come sempre.

«Basta fare flanella. Forza, guardoni. Dove le abbiamo lasciate le palle? Muoversi, finocchi, che le signorine sono belle.»

Non si faceva impressionare da nessuno. Molto chic. Di lì a un po’, fatto scattare l’interruttore centrale della luce e dato di piglio all’apparecchio del Flit, li avrebbe fatti scappare precipitosamente, mettendosi a spruzzare come un’indemoniata e cercando di prendere in faccia certi fin troppo noti habitué della flanella.

Il clima di Como non è mai stato dei più secchi. Nell’aria ristagna costantemente una certa reminiscenza di lago. Come un generalizzato velo di umidore, tendente a farsi cappa con il crescere del caldo. L’Alessandrina non riuscì a resistere al fascino ipnotico dello sbadiglio, senza nemmeno vedere da che parte arrivasse. La bocca le si aprì da sola. La coprì a metà con il ventaglio, mentre le cosce, appena velate del lacustre umidore, si mettevano a dondolare in cerca di frescura e lo sguardo rimaneva blandamente fisso su quella porta attraverso cui fra pochi istanti sarebbe avvenuto l’esodo di massa dei pecoroni scacciati dalla nuvola insetticida.

Invece eccolo lì in piedi sulla soglia, il cappello in mano, l’impermeabile sul braccio. L’uomo del mistero… »

venerdì 20 agosto 2021

Autunno 2003. Khiva, Uzbekistan. Omaggio all'Algoritmo

 Da Strada bianca per i Monti del Cielo

« Sono a Khiva, Uzbekistan, e il Convitato di Pietra in caftano e turbante che sto cercando di fotografare è Muhammad ibn-Musa al-Khorizmi, colui che ha introdotto il termine al-jabr e di conseguenza è considerato il Padre dell'Algebra. Dal suo nome viene l'espressione algoritmo. 

Essendo nato a Khiva nel 780 dopo Cristo, è celebrato appena fuori della porta principale della città da quell'immane monumento, e io sono arrivato fin lì, ai margini del Deserto Rosso turchestano e poco lontano dallo scorrere dello storico Oxus (oggi Amu-Darya), proprio per rendere omaggio a lui. In un paio di miei romanzi di ambiente avventurosamente matematico ho addirittura chiamato al-Khorizmi un programma per computer che ne fa di tutti i colori. Con gli algoritmi, appunto.

Mentre mi aggiro così pieno di reverenza alla ricerca di una luce che non ferisca la pellicola come fa con i miei occhi, improvvisamente il mirino della macchina fotografica inquadra un enorme cartellone giallo che spicca alto nel cielo di fronte alle mura. Una mappa stradale, a prima vista. Ma di dimensioni smisurate.

Fotografato da tutte le parti al-Khorizmi con esiti che so già mediocri (come dai definizione al marmo nero sullo sfondo di un simile cielo?), mi avvio con il naso all'aria per andare a leggere la Mappa. E capisco finalmente perché sono in viaggio e come mai, dopo trentacinque anni di peregrinazioni, l'inconscio mi ha portato a Khiva.
Il cartellone giallo è la mappa dell'antichissimo reticolo di strade detto Via della Seta…
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mercoledì 18 agosto 2021

Anni Settanta. Fotografando pitture rupestri nel Tassili algerino…




Da Güle gule. Parti con un sorriso:

« Raggiunta la base dell’altopiano delle pitture ho quasi un mancamento. Quella che dobbiamo affrontare non è una distesa di sabbia, sia pure in salita, ma un’immensa, interminabile pietraia scoscesa. Il targui l’affronta come una gazzella con i suoi piedoni nudi, ma le mie espadrillas scivolano come sul ghiaccio. E continuano a scivolare per le tre o quattro ore della salita. Ho i piedi in fiamme. A metà strada il thermos è già quasi vuoto.

Come Dio vuole raggiungiamo la vetta, e a quel punto ogni fatica e tormento svaniscono. Siamo circondati dalla storia plurimillenaria del deserto. Figure coloratissime o in semplice ocra, animali favolosi o fin troppo reali, ma che nel deserto non si vedono dalla notte dei tempi. E figure para-umane. Tra di esse i famosi “marziani”. Si può ridere finché si vuole, ma io mi riempio di brividi e da quel giorno non ho più dubbi che gli extraterrestri siano atterrati lì, chissà quando.


Molte delle figure para-umane hanno una sfera attorno alla testa, e dalla sfera partono due tubi. Basta aver visto un solo film di fantascienza: sono alieni. La sabbia è cosparsa di macine millenarie, con i loro pestelli. Emozionato ed esausto, imito la guida e mi accascio all’ombra di una delle singolari tettoie di roccia bionda cosparse di figure e sonnecchio, mentre lui gioca con un ragazzino, emerso non si sa da dove, a una specie di dama con pietruzze su una scacchiera disegnata nella sabbia… »

martedì 17 agosto 2021

Anni Settanta. Sahara algerino. Un'amica afghana. Ahimé, che fine avrà fatto?


Dal mio "Güle güle. Parti con un sorriso:














« Intanto però assisto a un altro miracolo dell'economiadi scambio sahariana. Siccome gli aerei non atterrano, la banca è rimasta senza liquidi. Ma a nessuno fa né caldo né freddo. In cambio delle nostre banconote europee il soffocante bugigattolo bancario emette tanti minuscoli foglietti di carta con scritto a mano quanto valgono. Il tutto garantito da un timbro. I negozianti li accettano senza battere ciglio, dandoci come resto altri foglietti timbrati di valore più piccolo oppure rilasciandoci note personali di credito, garantite dal loro nome. Le accettano tutti, anche il Bibendum, che continua allegrissimo a darci kuskus condito con pacche sulla schiena. Le accetta anche il benzinaio. L'unico problema è riuscire a finirle tutte mentre si è lì, poiché si tratta evidentemente di una micro-economia monetaria autarchica a brevissimo raggio. Diventiamo tutti molto bravi a fare i conti al centesimo di dinaro. Ma riuscirò mai a ripartire?


Non ne dubito, prima o poi un aereo passerà, atterrerà, mi caricherà e mi riporterà ad Algeri. Da lì all'Italia sarà uno scherzo. Alla Pro Loco mi hanno assicurato che i foglietti della banca saranno accettati anche in cambio di un biglietto dell'Air Algérie. Ma c'è un problema: se il sospirato Convair non atterra in un lasso di tempo ragionevole, mi rimarrà sufficiente valuta europea per recarmi alla banca e farmela convertire in un numero di foglietti sufficienti a comperare il biglietto? Sono francamente preoccupato.


Invece non ne ho motivo. I djinn delle pitture rupestri hanno molto approvato il mio comportamento e deciso di aiutarmi. Una sera, mentre seduto sotto una palma sto per l'ennesima volta facendo i conti del mio eseguissimo peculio, vedo entrare nel cortile delle zeribas una Land Rover lunga con targa francese. Provo un moto di sollievo e speranza, che però si converte subito in sgomento. Dalla camionetta smontano, uno dopo l'altro, cinque passeggeri. Un uomo, tre ragazzi e una ragazza, bellissima. Se non c'era posto sull'auto della reincarnazione di Lord Kitchener, che viaggia da sola, e non ce n'era neanche su quelle dei teneriani, che viaggiano a due a due, com'è possibile che mi carichi un'auto che ha già cinque passeggeri? Inoltre i cinque saranno diretti a Nord o a Sud, a Est, a Ovest?


La sera ci troviamo soltanto loro e io a cena dal gargottaro pneumatico e ambiguo. Attacchiamo subito discorso e tra noi nasce un'immensa simpatia. Sono un padre, due figli, un cugino. La ragazza, oltre a essere la fidanzata del più grande dei figli, è addirittura parente del re dell'Afghanistan, ha vissuto parecchio tempo a Roma e parla perfettamente l'italiano, oltre che l'inglese, il francese, l'afgano e chissà quante altre lingue, compreso un arabo evidentemente perfetto, visto il modo deferente in cui Bibendum e servetti pendono dalle sue labbra.


L'esperienza mi ha ammaestrato. Non dico che sto cercando un passaggio, ma che sto aspettando l'aereo da un secolo e sono un po' stufo. Aereo? mi chiede il padre con l'aria di un discendente del Re Sole. Venire fino a qui per poi andarsene in aereo? Non è meglio in auto?


Non ho dubbi che sia meglio, più avventuroso, interessante, emozionante eccetera eccetera, ma l'auto non ce l'ho, quindi bisogna che qualcuno mi porti. E, a quanto pare, qualche camion fa la spola fra qui e Tamanrasset, ma non affrontano la pista del Nord. Come faccio? Sono costretto, violentato, forzato a prendere l'aereo.


Vieni con noi, dice semplicemente il francese. Domani partiamo per il Nord.

Signori Mahaim, ho invaso la vostra Land Rover e bevuto la vostra acqua. Poi ho afflitto anche le vostre case di Parigi e in Bretagna, ospitandovi in cambio nella mia temporanea dimora di Firenze. Qualche anno più tardi ci siamo inopinatamente incontrati di nuovo alla Fiera del Libro di Francoforte, ma poi ho perso le vostre tracce, non vi trovo nemmeno in Internet. Chissà mai che questi miei lontani ricordi non possano servire a ritrovarvi. La gratitudine che ho per voi è eterna, vorrei esprimervela ancora una volta di persona. Amen.

Ferragosto a Wadi Ram (Giordania), 1979

Dal mio Güle güle. Parti con un sorriso:

Parto con un arabo dalla barbetta rada e il dente largo. Raggiunto il centro del vallone, la taioda si ferma sotto il sole, io scendo, fotografo la sabbia, almeno quella, l'arabo impassibile guarda. Ripartiamo? For, è la risposta. Per andare avanti ci vogliono quattro dinari. Ma non avevamo detto tu? Due, fino a qui. Per andare più avanti, quattro. Estenuante trattativa a base di for, tu, for, tri, e sanguinolento accordo su tre, con l'arabo infuriato che invoca Allah.

La Toyota derapa furibonda nella sabbia, io estraggo una sigaretta, l'arabo dice di no, quindi la metto via e allora subito lui dice, conciliante: ma sì, va', fuma, peccatore. E accende un orribile ululato di musica nel mangianastri. Ma io sono più testardo di lui e non fumo: Ramadan è e Ramadan sia. L'arabo è compiaciuto, l'altoparlante urla come un coyote molto malato. E via che ci si infila nel canale-sorgente, si toccano le incisioni lasciate nella rupe da millenni di gente andata e venuta. Adesso il bedù è allegrissimo, fa grandi segni verso la sabbia e dice: Orèns filìm, Orèns filìm.

Sì, qui attorno hanno girato il film di Lawrence d'Arabia, e il bedù ha visto tutto con i suoi occhi, se li indica. Ci sono ancora le rotaie del treno, appena fuori dell'imbocco della valle. Adesso però vuole i suoi tre gidì, glieli do, è soddisfatto. Indica che il mio comportamento è stato impeccabile, se rimango fino al tramonto mi offre un tè... No, grazie, devo andare ad Aqaba. Arrivederci, arrivederci, insciallà.

venerdì 6 agosto 2021

Le Meduse della Cisterna a Istanbul


Le due meduse nella Cisterna, Acquedotto di Giustiniano a Istanbul. Una sottosopra, l'altra di traverso fanno da base a due delle tantissime (+ di 300) colonne. Quella di sopra non l’avevo mai vista prima, soltanto l’altra, fotografata già nel 1993. Questo luogo magico lo avevo visitato soltanto allora, aperto da poco al pubblico. Sono bellissime



Elefanti e pazienza

Gli elefanti hanno la fama di essere animali pazienti. Guarda per esempio questa santa (addomesticata), che mi ha portato in giro per la giungla nepalese (Chitwan). 


O quest'altra (anche lei addomesticata), che bloccava pacificamente il traffico nelle stradine di Dacca (Bangladesh).










E a modo loro erano pazienti anche questi due, però selvatici, nel Terai Occidentale, Nepal. Nel senso che se ne stavano rintanati tutto il giorno nell'ombra fitta della giungla e verso sera ne uscivano per sfasciare i depositi, rubare il riso e terrorizzare il villaggio di gentilissimi e bellissimi Tharu dove mi trovavo nella pia illusione di avvistare la tigre (maggio 2016). Tutto il villaggio passava la notte a pestare su tamburi, lastre di ondulato e padelle nell'inutile speranza di spaventarli. Brutta roba. Un po' di paura, anche…