lunedì 23 agosto 2021

L'Alessandrina. Storia di casini

Di questi tempi pare che di sesso non si possa fare a meno di infilarne a bizzeffe in qualsiasi storiella, per quanto banale. Tonnellate di masturbazione, quintali di fellazione. Va be'. A me molto male incolse quando, in un romanzo perbene dei primi anni Novanta, mi permisi di dissertare sulle case chiuse d'Italia (prima che diventassero "aperte" ovvero fossero chiuse sul serio). Che scandalo, che vergogna, soprattutto  le signore lettrici, indignate, furibonde…

P.S. Nella foto il portone di quello che era il Dollaro, a Como, dove ho lasciato distrattamente la verginità, nel 1957. Per 1000 lire…

Dal mio Due bellissime signore (ovvero: Destino, 2a parte)

« In un mese imprecisato del 1510 il signor Pietro Boldoni, borghese di Bellano, località famosa per l’attrazione rappresentata dall’Orrido, aveva portato a Como un “molendinum seu turnum”, ovvero, insomma, un mulino da seta, dando avvio alla prima forma più o meno organizzata di produzione del prezioso tessuto nella zona. Perciò, a far tempo dal 1887, in quanto “introduttore dell’arte serica”, la città, grata, gli aveva dedicato quella che fino ad allora si era chiamata Contrada dei Tre Prestini alle Cinque Vie, o anche Contrada della Virtù: una via che a un capo si apriva in uno slargo. Via Boldoni e, per estensione, piazzetta Boldoni.

Alla famiglia dei nobili Volpi, invece, la città era grata per motivi di storico prestigio. Un Girolamo cosmografo e poeta. Un Giovanni Antonio vescovo e inviato al Concilio di Trento. Un Ulpiano arcivescovo di Rieti e nunzio apostolico. Un Giampietro vescovo di Novara. Gente di una pietas a prova di bomba, a cui la città aveva ritenuto suo preciso e pio dovere dedicare la via nota un tempo come “Contrada dell’Onor Patrio” e poi “della Caserma Volpi”.

Bene: chi alla metà del Ventesimo secolo saliva dal lago verso San Fedele e Portatorre attraverso via Boldoni, se appena appena deviava distrattamente un po’ sulla sinistra entrava in via Volpi già Contrada Caserma già Contrada dell’Onor Patrio. Dove, in spregio a ogni nobile pietas e persino prudenza, ai civici numeri 5 e 7 aveva sede un onorato casino. Un postribolo, per quanto elegante. Un lupanare, per quanto ben frequentato. Proprio nella via dei piissimi Volpi? Chissà perché. Forse in considerazione degli antichi nomi della suddetta via Volpi e del fatto che chi sta in Caserma, avendo poco tempo da perdere poiché deve dedicarsi giorno e notte all’Onor Patrio, ha frequentemente bisogno di rapido ed esperto sollievo per la carne.

Insomma: era in questo onorato locale che concedeva i propri favori secondo tariffario l’Alessandrina. Rispettabile e apprezzata cortigiana che aveva saputo non buttarsi via. Eh, no. Al contrario: aveva saputo trattarsi bene. Bastava fare i conti. Dal giorno in cui aveva messo piede per la prima volta in una “casa” erano passati poco più di vent’anni. E il suo unico figlio, luce dei suoi occhi, ne aveva appena compiuti ventuno. Dunque non ci sarebbe stato da offendersi se qualcuno avesse detto che non era più una bambina. Sarebbe stato poco signore, un villano da trattare con le pinze, ma niente di più.

Era ancora una gran bella donna. Piaceva. Proprio magra non era mai stata, ma nemmeno grassa. Aveva le sue belle forme, ben conservate. Quando si metteva lì sul suo scranno, drappeggiata come le avevano insegnato due decenni di onesta professione, in modo da lasciar vedere e non vedere, gli uomini se la mangiavano ancora con gli occhi.

Perciò davanti a lei non si era mai aperta — né mai si sarebbe aperta — la fossa dei leoni. Il giro delle marchette a mille lire, via uno avanti l’altro. Il girone d’inferno delle case da battaglia. Militari di leva, teppa, apprendisti magnani, bifolchi che il sapone non sapevano nemmeno che cosa fosse. Il Poslaghetto, a Milano. Lo Squarciafico, a Genova. Via dell’Amorino, a Firenze. Più in giù, poi, chissà che cosa c’era. Quaranta al giorno, un colpo di straccio e via. Brrr. Per le povere disgraziate che precipitavano fino a lì in caduta libera non c’era salvezza. Piano piano finivano in Grecia, in Turchia, in Libano, in Egitto. Se non marcivano del tutto strada facendo.

Lei, invece, Elvira Cavaglia, detta l’Alessandrina per via della città d’origine — che non era affatto in Egitto ma in Piemonte —, dopo vent’anni di impeccabile servizio era ancora lì, nel giro alto. Nessuno aveva mai avuto motivo di lamentarsi di lei. Anzi, grazie a Dio i regalini extra che era riuscita a vendere o a nascondere in banca le avevano consentito di tirare grande il ragazzo senza che capisse niente. Era per lui, nato senza il cognome di un padre, che era stata costretta a fare il più antico dei mestieri.

Comunque il futuro si presentava tranquillo. Esentato dal servizio militare, il ragazzo lavorava in fabbrica già da un bel po’, e fra qualche anno lei avrebbe potuto raggiungerlo, ritirarsi, godersi l’ultimo scampolo di vita prima della vecchiaia e di quello che inevitabilmente la segue.

Per intanto continuava con il suo giro alto. A Milano il Disciplini, con gli alti troni dorati studiati apposta per procedere con comodo a certi servizi per così dire di bocca buona. Oppure il San Pietro all’Orto, con i suoi specchi a uso dei signori che più che fare gli piace guardare. O il Porlezza, con tutta la sua gente “su”: giornalisti, letterati, pittori. O l’Alberto Mario, quando aveva avuto bisogno di rifarsi i denti: la direzione, che le voleva sempre impeccabili, aiutava le signorine a pagarsi l’odontoiatra.

A Pavia il Grotta Azzurra, sempre pieno di studentelli universitari con tanta fame e pochi soldi, che le ricordavano il suo ragazzo, nascosto su ad Alpignano dagli zii, e la riempivano di istinti materni. Certe volte, con loro, non stava a guardare troppo il tempo, così poi la signora la sgridava. Ma di rado. Erano talmente spaventati, poveri ragazzi, che di solito in un momento era fatta. Qualche volta, però, avevano dei problemi, e bisognava avere un po’ di pazienza. Poi, appena fatto, scappavano come se avessero visto il diavolo sbucare di punto in bianco dal bidet appoggiato sul suo treppiede di metallo.

A Genova il Castagna. A Parma il Borgo Tasso. A Firenze la Rina.

E così via. Più giù di Firenze, comunque, l’Alessandrina non aveva mai avuto bisogno di andare, anche se per qualche tempo, agli inizi della carriera, un certo individuo aveva fatto di tutto per convincerla ad andare in una casa di Bari, dove, secondo lui, a ogni cambio di quindicina arrivava nientemeno che il re d’Albania con una valigetta piena di gioielli. Al Villino delle Rose. Una marchetta, quindici lire.

Bari? Con tutto il rispetto, per chi l’aveva presa quel margniffo? Dove poteva mai essere l’Albania? Che balla! Per fortuna gliel’avevano tolto di mezzo, che cominciava a farsi un po’ soffocante. Anzi, si era tolto di mezzo da solo. Storie di coltelli, roba con cui lei non aveva mai voluto avere niente a che fare. Il suo amore ce l’aveva già, ed era il figlio che cresceva ad Alpignano. Non era mai andata neanche a Roma, per quanto l’avessero richiesta un’infinità di volte dall”’Avignonese”. No, niente, non poteva allontanarsi troppo. E non voleva nemmeno.

Perciò adesso era lì, al Dollaro di Como, in via Volpi. Un locale di prim’ordine. Discreto, elegante, gente fine, signoroni svizzeri. Non come i posti dove poteva anche capitare di morire d’infarto durante il lavoro, quelli nascosti nel vicolo nientemeno che giù davanti al Duomo, pieni di gente senza rispetto. In Duomo lei ci andava la domenica mattina prestissimo, prima che arrivasse gente, entrando di sbieco dalla porta della rana, dalla parte del Bar Argentino, la testa quasi completamente coperta da un bel foulard scuro di seta, a pregare Dio che tenesse un occhio di riguardo sul ragazzo che cresceva, che gli desse i mezzi di andare in case perbene, visto che era nato maschio e che quindi certe cose doveva per forza (e per salute) farle anche prima di sposarsi. Certo, non case signorili come quelle in cui lavorava lei, ma almeno pulite. Oneste. Non in certe stalle, povera anima.

In altre città, Dio andava a pregarlo in Santa Maria delle Grazie, in Santa Maria del Carmine, in Santa Maria di Carignano, alla Madonna della Steccata.

Chiamandosi di secondo nome Maria, era naturale che Elvira Cavaglia avesse una predilezione per le chiese dedicate alla madre di Gesù, donna poco fortunata anche lei, ma non è che ce ne fossero sempre a disposizione dappertutto. A Pavia, per esempio, andava a San Pietro in Ciel d’Oro. In Piemonte, invece, per evidenti motivi, non andava mai. Né in chiesa né a lavorare. Ci mancava altro che, presa la paga settimanale e messo il vestito buono, al ragazzo venisse voglia di mettere il naso, tanto per dare un’occhiata, al Babi di Porta Palazzo, diciamo, e ce la trovasse lì.

Comunque fosse, fino a quel momento Dio l’aveva ascoltata. Non era stato Lui, in definitiva, a dire che non bisogna tirare neanche la prima pietra, che la vita e il peccato sono cose difficili da farci i conti, che a sbagliare si fa in fretta, mentre non sempre è possibile trovare un rimedio così sui due piedi?

Lei Lo pregava, e Lui ascoltava. Dopo vent’anni di onesta professione in giro per quelle case onorate, qualche diritto l’Alessandrina se l’era conquistato. Se non altro quello di andare in chiesa da sola, la domenica mattina presto, la faccia nascosta con cura per non offendere nessuno.

La donna sollevò il ventaglio e si fece stancamente aria, quindi, generosa, ritirò fino poco sotto l’inguine il velo che le copriva le cosce, a beneficio dei guardoni. Sotto, non portava niente.

Pomeriggio di fiacca. Gente che aveva voglia soltanto di fare flanella. Un ragazzetto terrorizzato, seduto in fondo al lungo divano centrale, quasi abbracciato al suo pacco di libri di scuola legati con una cinghia verde di gomma ridotta a un filo. Doveva avere compiuto diciott’anni quel giorno ed eccolo lì, puntuale come un cronometro svizzero, oltre che regolarmente con il cuore in gola. Ma che conforto potevano dargli i libri che si schiacciava sul ventre? Gli fece un sorriso. «Andiamo?», accennò appena con le labbra, piegando la testa di lato in direzione della scala.

L’espressione del ragazzo, da spaventata si fece infelice. Si alzò di scatto e si avviò per uscire. Una volta che si fu tolti i libri dal grembo, si vide chiaramente che era messo bene. I pantaloni lunghi erano strettissimi. Forse ancora i primi che gli avevano messo. Gli altri, quelli nuovi che gli erano sicuramente stati regalati per i diciotto anni, li avrebbe inaugurati la domenica seguente. E prima o poi sarebbe ricomparso sfoggiandoli, un po’ meno terrorizzato, più scafato, già sentendosi un veterano, magari addirittura con addosso un completo elegante, o in compagnia di un coetaneo, poveri verginelli. L’Alessandrina lo seguì con uno sguardo affettuoso fino alla porta, augurandosi che anche il suo ragazzo, a Torino, trovasse una donna comprensiva come lei.

Gli altri rimasero tutti a sedere, immobili come tante statue di gesso. Figuranti. Gente da bar. Pidocchietti da sala corse. Mezze tacche del contrabbando con la Svizzera. Uomini che di giorno non avevano niente di preciso da fare. Tra loro, nemmeno uno svizzero dal bel portafoglio pieno di franchetti. Guardavano. Guardavano. Nell’aria non si sentiva volare una mosca. Il silenzio era rotto soltanto dal fruscio dei ventagli e dei veli, da qualche sbadiglio represso. Dall’angolo normalmente occupato dalla Tosca si stava diffondendo un odore pulito di acetone. Le signorine ospiti del Dollaro si stavano annoiando. E, come insegnava l’esperienza, le cose non potevano andare avanti così ancora per molto. La signora, dal trono vicino all’ingresso da cui dominava la sala, aveva già invitato due volte i neghittosi visitatori a salire ai piani superiori. Decisa, come sempre.

«Basta fare flanella. Forza, guardoni. Dove le abbiamo lasciate le palle? Muoversi, finocchi, che le signorine sono belle.»

Non si faceva impressionare da nessuno. Molto chic. Di lì a un po’, fatto scattare l’interruttore centrale della luce e dato di piglio all’apparecchio del Flit, li avrebbe fatti scappare precipitosamente, mettendosi a spruzzare come un’indemoniata e cercando di prendere in faccia certi fin troppo noti habitué della flanella.

Il clima di Como non è mai stato dei più secchi. Nell’aria ristagna costantemente una certa reminiscenza di lago. Come un generalizzato velo di umidore, tendente a farsi cappa con il crescere del caldo. L’Alessandrina non riuscì a resistere al fascino ipnotico dello sbadiglio, senza nemmeno vedere da che parte arrivasse. La bocca le si aprì da sola. La coprì a metà con il ventaglio, mentre le cosce, appena velate del lacustre umidore, si mettevano a dondolare in cerca di frescura e lo sguardo rimaneva blandamente fisso su quella porta attraverso cui fra pochi istanti sarebbe avvenuto l’esodo di massa dei pecoroni scacciati dalla nuvola insetticida.

Invece eccolo lì in piedi sulla soglia, il cappello in mano, l’impermeabile sul braccio. L’uomo del mistero… »

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