Parto con un arabo dalla barbetta rada e il dente largo. Raggiunto il centro del vallone, la taioda si ferma sotto il sole, io scendo, fotografo la sabbia, almeno quella, l'arabo impassibile guarda. Ripartiamo? For, è la risposta. Per andare avanti ci vogliono quattro dinari. Ma non avevamo detto tu? Due, fino a qui. Per andare più avanti, quattro. Estenuante trattativa a base di for, tu, for, tri, e sanguinolento accordo su tre, con l'arabo infuriato che invoca Allah.
La Toyota derapa furibonda nella sabbia, io estraggo una sigaretta, l'arabo dice di no, quindi la metto via e allora subito lui dice, conciliante: ma sì, va', fuma, peccatore. E accende un orribile ululato di musica nel mangianastri. Ma io sono più testardo di lui e non fumo: Ramadan è e Ramadan sia. L'arabo è compiaciuto, l'altoparlante urla come un coyote molto malato. E via che ci si infila nel canale-sorgente, si toccano le incisioni lasciate nella rupe da millenni di gente andata e venuta. Adesso il bedù è allegrissimo, fa grandi segni verso la sabbia e dice: Orèns filìm, Orèns filìm.
Sì, qui attorno hanno girato il film di Lawrence d'Arabia, e il bedù ha visto tutto con i suoi occhi, se li indica. Ci sono ancora le rotaie del treno, appena fuori dell'imbocco della valle. Adesso però vuole i suoi tre gidì, glieli do, è soddisfatto. Indica che il mio comportamento è stato impeccabile, se rimango fino al tramonto mi offre un tè... No, grazie, devo andare ad Aqaba. Arrivederci, arrivederci, insciallà.
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