Il testo del romanzo è preceduto da questa mia Avvertenza
Il Segreto dell'Azteco è il mio ventesimo libro (16 romanzi, 3 di viaggio, 1 di poesie), ed è il secondo pubblicato direttamente in formato elettronico, senza una precedente edizione cartacea. Come per quel romanzo — Rosa d’Oriente —, anche la gestazione di questo è stata piuttosto lunga. La racconto perché — come nel caso precedente — sono l’unico a conoscerla nella sua interezza, e se non la divulgassi in questa sede nessuno ne saprebbe niente. È cominciata nell’autunno del 1996. Venti anni fa…
Avevo lasciato (o perlomeno ero fermamente intenzionato a lasciare) l’ottima Casa Editrice Rizzoli di allora per malumori personalissimi e avevo ricevuto un incarico di consulenza ad ampio raggio dalla mia vecchia Longanesi di Mario Spagnol (anch’essa da me lasciata una decina di anni prima per malumori personalissimi…) In realtà con la gloriosa casa editrice non avevo mai rotto del tutto, la stima che mi legava reciprocamente all’editore non era mai venuta meno nonostante il mio abbandono. Ma abbandono c’era stato, e il vecchio Spagnol, oltre che un grande editore era un osso durissimo. Rognoso. Come consulente mi aveva rivoluto lui, ma come autore? Non osavo proporglielo, e lui mi lasciava rosolare a fuoco lentissimo.
Ma stavo elaborando un progetto molto corposo, che si sarebbe dovuto sviluppare su tre romanzi. Una complicata composizione a cavallo tra il techno-thriller e il New Age, che avrebbe avuto come motivo conduttore la presenza di alcuni personaggi principali impegnati a risolvere tre intricate vicende. Tra l’autunno del 1996 e l’inizio primavera del 1998 avevo scritto tutto il primo romanzo, quasi tutto il secondo e lo scheletro del terzo.
A quel punto, verso il ponte del 1° maggio, ho preso il coraggio a piene mani e ho telefonato al cerbero Spagnol, il quale ha ridacchiato a lungo, com’era sua abitudine e mi ha invitato ad andarlo a trovare. In casa editrice? No, a casa. A Milano? Eh, no, troppo facile: c’era il ponte, lui andava a trascorrerlo nel bellissimo rifugio di Lerici, alto sul mare, con un grande giardino. Potevo portargli lì lo scartafaccio e illustrarglielo con tutta la calma necessaria.
Chiesi ospitalità a cari amici a Castelnuovo Magra e da lì mi precipitai a Lerici, con il cuore in gola. Sono sempre stato un maestro nel bruciarmi i ponti dietro le spalle, quindi tornare alla Rizzoli era ormai impossibile, né d’altra parte lo volevo. Ma non sono altrettanto bravo a propormi.
In realtà non illustrai un bel niente. Il rognoso Spagnol, grande giocatore di poker e sempre più deciso a farmi scontare l’affronto dell’abbandono, mi fece posare il malloppo su un tavolo e, sempre ridacchiando, mi guidò fuori, nel bel giardino. Era convinto di avere un fantastico pollice verde e ci teneva a esibirlo. Passammo un’oretta o forse più a discutere accanitamente se il rododendro fosse un’azalea o meno. Io dicevo di sì, lui negava con la massima decisione. Due belle teste dure. Avevo ragione io, come non poche altre volte nei nostri dibattiti, ma il sugo è che a un certo punto mi congedò. Aveva da fare.
E il mio progetto? Non lo avevamo neanche guardato. Calma, le farò sapere…
Un paio di mesi più tardi, poco prima delle ferie, mi convocò nel suo ufficio in Corso Italia a Milano e mi disse seccamente che il primo romanzo non gli dispiaceva ma dovevo cambiare l’ambientazione. C’era troppa Turchia, che secondo lui non portava bene. Chissà perché. Il mio primo romanzo “turco”, Il Cielo della Mezzaluna, pubblicato da lui, aveva avuto un’ottima accoglienza, rivelandomi alla critica e al pubblico, e i successivi romanzi “turchi” pubblicati da Rizzoli — Un amore innocente e Crudele amore —, erano andati benissimo.
Comunque all’editore che legge i testi bisogna sempre dare retta, per cui mi misi al lavoro. E lavorando mi resi conto che aveva ragione lui. La Turchia — le acque termali di Bursa e i dintorni — risultava pochissimo credibile, non tanto in sé quanto per tutti i trambusti che infliggevo al protagonista. Tra l’altro avevo deciso di farlo andare in coma, poveretto, durante un’immersione nell’Egeo, senza avere nemmeno la più vaga idea dell’argomento. L’idea mi era venuta avendo visto all’opera amici italo-turchi che gestivano una scuola di quell’attività nell’Egeo, ma in pratica non ne sapevo niente. Mi ripromettevo di farmela spiegare bene da loro, ma alla fine mi sono reso conto che rischiavo di scrivere un bel po’ di sciocchezze. Sono attività che si praticano, non te le può spiegare nessuno.
Tornai in Italia piuttosto confuso e orientato a piantare in asso il progetto. Dopo Ferragosto avevo l’abitudine di raggiungere in Slovenia altri cari amici per appassionate sfide di raccolta di funghi. E li raggiungevo facendo ampie deviazioni che in precedenza mi avevano portato a visitare l’Ungheria e la Romania. Quell’anno decisi di andare in Polonia, dov’ero stato 35 anni prima, per rivedere Cracovia e dintorni passando per i Monti Tatra e la località montana di Zakopane, di cui avevo uno squisito ricordo di gioventù.
Non ci arrivai mai. Ai piedi dei Tatra, sul versante slovacco, ecco lì la mia ambientazione, nelle acque termali di Bardejov, con infinità di pinete (non trovai nemmeno un fungo commestibile), bizzeffe di chiese neogotiche e tutta un’atmosfera post comunista che sembrava fatta apposta. Era perfetta. Montagna invece che mare, e un incidente di sci ci mettevo poco a inventarlo e raccontarlo. Ho cominciato a sciare a nove anni, nel 1948, e lo facevo regolarmente — accanitamente — ogni inverno. Anche d’estate, al durissimo Stelvio di allora. Ero di sicuro più a mio agio con lamine e scarponi che con boccagli e pinne.
Ci misi pochissimo a sistemare il romanzo, anche se in pratica significò riscriverlo tutto. Ma l’impianto era lo stesso. Mario Spagnol mi lasciò rosolare ancora un paio di mesi, poi finalmente in novembre mi diede la sospirata risposta. Mi faceva un contratto per il primo romanzo — che fu Una porta di luce, febbraio 1998 — per il resto si sarebbe visto.
Intanto si era purtroppo scatenata in lui la tremenda malattia che ce lo avrebbe portato via di lì a un paio di anni, e faticava moltissimo a leggere i testi che gli venivano proposti. Ma, uomo di ferro, voleva essere lui a decidere.
Così la seconda parte del progetto, pur pronta da mesi, faticò ad arrivare a pubblicazione, anche se alla fine divenne realtà con il romanzo intitolato Codice Ombra, autunno 1999.
Spagnol ci lasciò pochissimi giorni dopo, e la progettata terza parte rimase come in un limbo, palleggiata tra me e suoi successori, impegnati forse a dimostrare di essere bravi come lui. Più di lui, caso mai… Contenti loro…
Va be’, dopo tanti anni la terza parte è arrivata a conclusione ed è questo romanzo, Il Segreto dell’Azteco. E con esso arriva a conclusione anche quella che io chiamo "Trilogia delle Luci". Buona lettura.
Il Segreto dell'Azteco è il mio ventesimo libro (16 romanzi, 3 di viaggio, 1 di poesie), ed è il secondo pubblicato direttamente in formato elettronico, senza una precedente edizione cartacea. Come per quel romanzo — Rosa d’Oriente —, anche la gestazione di questo è stata piuttosto lunga. La racconto perché — come nel caso precedente — sono l’unico a conoscerla nella sua interezza, e se non la divulgassi in questa sede nessuno ne saprebbe niente. È cominciata nell’autunno del 1996. Venti anni fa…
Avevo lasciato (o perlomeno ero fermamente intenzionato a lasciare) l’ottima Casa Editrice Rizzoli di allora per malumori personalissimi e avevo ricevuto un incarico di consulenza ad ampio raggio dalla mia vecchia Longanesi di Mario Spagnol (anch’essa da me lasciata una decina di anni prima per malumori personalissimi…) In realtà con la gloriosa casa editrice non avevo mai rotto del tutto, la stima che mi legava reciprocamente all’editore non era mai venuta meno nonostante il mio abbandono. Ma abbandono c’era stato, e il vecchio Spagnol, oltre che un grande editore era un osso durissimo. Rognoso. Come consulente mi aveva rivoluto lui, ma come autore? Non osavo proporglielo, e lui mi lasciava rosolare a fuoco lentissimo.
Ma stavo elaborando un progetto molto corposo, che si sarebbe dovuto sviluppare su tre romanzi. Una complicata composizione a cavallo tra il techno-thriller e il New Age, che avrebbe avuto come motivo conduttore la presenza di alcuni personaggi principali impegnati a risolvere tre intricate vicende. Tra l’autunno del 1996 e l’inizio primavera del 1998 avevo scritto tutto il primo romanzo, quasi tutto il secondo e lo scheletro del terzo.
A quel punto, verso il ponte del 1° maggio, ho preso il coraggio a piene mani e ho telefonato al cerbero Spagnol, il quale ha ridacchiato a lungo, com’era sua abitudine e mi ha invitato ad andarlo a trovare. In casa editrice? No, a casa. A Milano? Eh, no, troppo facile: c’era il ponte, lui andava a trascorrerlo nel bellissimo rifugio di Lerici, alto sul mare, con un grande giardino. Potevo portargli lì lo scartafaccio e illustrarglielo con tutta la calma necessaria.
Chiesi ospitalità a cari amici a Castelnuovo Magra e da lì mi precipitai a Lerici, con il cuore in gola. Sono sempre stato un maestro nel bruciarmi i ponti dietro le spalle, quindi tornare alla Rizzoli era ormai impossibile, né d’altra parte lo volevo. Ma non sono altrettanto bravo a propormi.
In realtà non illustrai un bel niente. Il rognoso Spagnol, grande giocatore di poker e sempre più deciso a farmi scontare l’affronto dell’abbandono, mi fece posare il malloppo su un tavolo e, sempre ridacchiando, mi guidò fuori, nel bel giardino. Era convinto di avere un fantastico pollice verde e ci teneva a esibirlo. Passammo un’oretta o forse più a discutere accanitamente se il rododendro fosse un’azalea o meno. Io dicevo di sì, lui negava con la massima decisione. Due belle teste dure. Avevo ragione io, come non poche altre volte nei nostri dibattiti, ma il sugo è che a un certo punto mi congedò. Aveva da fare.
E il mio progetto? Non lo avevamo neanche guardato. Calma, le farò sapere…
Un paio di mesi più tardi, poco prima delle ferie, mi convocò nel suo ufficio in Corso Italia a Milano e mi disse seccamente che il primo romanzo non gli dispiaceva ma dovevo cambiare l’ambientazione. C’era troppa Turchia, che secondo lui non portava bene. Chissà perché. Il mio primo romanzo “turco”, Il Cielo della Mezzaluna, pubblicato da lui, aveva avuto un’ottima accoglienza, rivelandomi alla critica e al pubblico, e i successivi romanzi “turchi” pubblicati da Rizzoli — Un amore innocente e Crudele amore —, erano andati benissimo.
Comunque all’editore che legge i testi bisogna sempre dare retta, per cui mi misi al lavoro. E lavorando mi resi conto che aveva ragione lui. La Turchia — le acque termali di Bursa e i dintorni — risultava pochissimo credibile, non tanto in sé quanto per tutti i trambusti che infliggevo al protagonista. Tra l’altro avevo deciso di farlo andare in coma, poveretto, durante un’immersione nell’Egeo, senza avere nemmeno la più vaga idea dell’argomento. L’idea mi era venuta avendo visto all’opera amici italo-turchi che gestivano una scuola di quell’attività nell’Egeo, ma in pratica non ne sapevo niente. Mi ripromettevo di farmela spiegare bene da loro, ma alla fine mi sono reso conto che rischiavo di scrivere un bel po’ di sciocchezze. Sono attività che si praticano, non te le può spiegare nessuno.
Tornai in Italia piuttosto confuso e orientato a piantare in asso il progetto. Dopo Ferragosto avevo l’abitudine di raggiungere in Slovenia altri cari amici per appassionate sfide di raccolta di funghi. E li raggiungevo facendo ampie deviazioni che in precedenza mi avevano portato a visitare l’Ungheria e la Romania. Quell’anno decisi di andare in Polonia, dov’ero stato 35 anni prima, per rivedere Cracovia e dintorni passando per i Monti Tatra e la località montana di Zakopane, di cui avevo uno squisito ricordo di gioventù.
Non ci arrivai mai. Ai piedi dei Tatra, sul versante slovacco, ecco lì la mia ambientazione, nelle acque termali di Bardejov, con infinità di pinete (non trovai nemmeno un fungo commestibile), bizzeffe di chiese neogotiche e tutta un’atmosfera post comunista che sembrava fatta apposta. Era perfetta. Montagna invece che mare, e un incidente di sci ci mettevo poco a inventarlo e raccontarlo. Ho cominciato a sciare a nove anni, nel 1948, e lo facevo regolarmente — accanitamente — ogni inverno. Anche d’estate, al durissimo Stelvio di allora. Ero di sicuro più a mio agio con lamine e scarponi che con boccagli e pinne.
Ci misi pochissimo a sistemare il romanzo, anche se in pratica significò riscriverlo tutto. Ma l’impianto era lo stesso. Mario Spagnol mi lasciò rosolare ancora un paio di mesi, poi finalmente in novembre mi diede la sospirata risposta. Mi faceva un contratto per il primo romanzo — che fu Una porta di luce, febbraio 1998 — per il resto si sarebbe visto.
Intanto si era purtroppo scatenata in lui la tremenda malattia che ce lo avrebbe portato via di lì a un paio di anni, e faticava moltissimo a leggere i testi che gli venivano proposti. Ma, uomo di ferro, voleva essere lui a decidere.
Così la seconda parte del progetto, pur pronta da mesi, faticò ad arrivare a pubblicazione, anche se alla fine divenne realtà con il romanzo intitolato Codice Ombra, autunno 1999.
Spagnol ci lasciò pochissimi giorni dopo, e la progettata terza parte rimase come in un limbo, palleggiata tra me e suoi successori, impegnati forse a dimostrare di essere bravi come lui. Più di lui, caso mai… Contenti loro…
Va be’, dopo tanti anni la terza parte è arrivata a conclusione ed è questo romanzo, Il Segreto dell’Azteco. E con esso arriva a conclusione anche quella che io chiamo "Trilogia delle Luci". Buona lettura.
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