Dal mio “Strada bianca per i Monti del Cielo. Vagabondo sulla Via della Seta”
(La foto l’ho ripresa da un articolo del coraggioso giornalista Fulvio Scaglione, uno dei pochissimi a parlarne)
« Sul nastro di asfalto che continuando da Aleppo corre lungo la riva destra dell'Eufrate mi inoltrai un giorno d'estate dei primi anni Ottanta. Essendo stato letteralmente buttato fuori dall'ambasciata irachena di Roma quando avevo osato chiedere un visto, volevo comunque avvicinarmi il più possibile ai confini di quell'impenetrabile paese, se non altro per vedere Doura Europos e Mari, oltre a Rasafa, in territorio siriano. Il posto giusto dove fare tappa era ed è tuttora Deir ez-Zor. Vi trascorsi una serata bellissima.
La mia prima meta era stata Rasafa, anche scritto Resafa, Rosafa o Rusafa. Roseph per la Vulgata e Sergiopoli per i romani: la patria di San Sergio. Erano molti anni che ci volevo andare, fin da una delle mie prime visite a Istanbul e a quella che attualmente è chiamata Piccola Santa Sofia, la Chiesa dei Santi Sergio e Bacco, divenuta moschea.
Rasafa è stata una delle grandi città romane del Crescente Fertile, capitale della provincia Augusta Euphratensis, dopo la caduta di Doura Europos in mani persiane, e di ricchezza pari alla Palmira della regina Zenobia. I resti sono molto estesi ma purtroppo altrettanto poveri, anche se sfavillanti di un miracolo di frammenti di mica. Uno straordinario baluginare di specchietti tra la sabbia sotto il sole sfolgorante di Siria.
Abbagliato, capii di punto in bianco il senso di una frase che avevo letto tempo prima, coniata da Andrè Parrot, archeologo francese e primo direttore del Louvre, scopritore di Mari nel 1933: «Ciascuno ha due patrie: la sua e la Siria».
Arrivato di pomeriggio nella piacevole Deir ez-Zor e concessomi un po' di riposo, sul far della sera uscii e, fatto un giro nel bazar, andai a cena. Rinfrancato dal solito ottimo cibo siriano, mi aggirai qualche minuto per il centro che si stava facendo buio, finché mi accorsi che tutti andavano nella stessa direzione. Mi accodai.
Arrivammo a un corso d'acqua, dove la temperatura calò di colpo di diversi gradi, facendosi fresca e gradevolissima. Era l'Eufrate. Attraversato da un ponte che mi fece mancare il fiato, una replica in sedicesimo del Golden Gate di San Francisco. Piccolo piccolo ma tale e quale. Lo hanno costruito i francesi negli anni Venti, quando la Siria è stata loro affidata con la formula del mandato dopo aver scacciato verso l'Iraq il grande protetto di Lawrence d'Arabia, lo hashemita sceicco Feisal, diventato per pochissimo tempo re di Siria e poi spedito a farsi assassinare come re del neo assemblato Iraq. Uno dei più tremendi pasticci colonialisti combinati da britannici e francesi in combutta. Una polveriera che sta ardendo ancora e non smetterà probabilmente mai.
Perché i francesi avranno costruito il ponte di Deir con quella forma, invece di fare una replica in piccolo di uno dei loro? Chissà. E quanto sarà largo? Pochi metri, infatti lo si percorre soltanto a piedi. Ma nelle sere d'estate era la meta preferita di tutti gli abitanti della cittadina. Erano lì che andavano avanti e indietro, e io con loro. Che bel posto. E che straordinaria capacità hanno le popolazioni desertiche di non sprecare parole e quindi alito, e quindi umidità interna. Passeggiare in mezzo a quel mormorio e a quello svolazzare di indumenti orientali era bellissimo.
Ci misi poco a rendermi conto che la popolazione giovane, almeno quella di sesso maschile, era divisa tra modernisti e tradizionalisti. I primi in jeans, i secondi nelle loro splendide gellabe bianche o azzurre. Facevo finta di niente, ma ero perfettamente consapevole di averne alle spalle un gruppo che mi seguiva timidamente da diversi minuti. Frequentavo da abbastanza tempo quelle terre per sapere quanto isolate siano dalla cattiva coscienza internazionale, e quanta voglia abbiano i loro giovani di comunicare con lo straniero.
Visto che non osavano prendere l'iniziativa, la presi io. Arrivato circa a metà del ponte feci un improvviso dietrofront che mi mandò quasi a sbattere contro di loro. Il gruppo si aprì per accogliermi, e per un'oretta – o forse più – fui uno di loro, l'amico adulto tornato da lontano, il fratello rientrato dall'emigrazione. Conoscevano in diversi il francese. Di che cosa parlammo? Chi lo sa. Di tutto e di niente. Molti di loro reggevano per il manubrio certi biciclettoni cinesi neri che così alti non credo di averne mai visti prima (li ho rivisti poi appunto in Cina).
Vollero sapere se preferivo quelli di loro in jeans o quelli in gellaba. Ero inesorabilmente destinato a creare dispiacere a una parte di essi, per cui cercai di traccheggiare, ma non ci fu niente da fare: esigevano una risposta. Non sono mai stato capace di mentire, e poi perché farlo, visto che comunque avrei dato una risposta poco gradita a una parte di loro? Risposi onestamente che mi piacevano di più quelli in gellaba. I visi dei modernisti si fecero lunghi. Mi spiegarono in toni accorati che avevo torto, che per evolversi è indispensabile essere moderni e quindi vestirsi come ci si veste nei paesi sviluppati. Per fortuna non sapevano ancora che nei paesi sviluppati si scolorivano e stracciavano apposta indumenti perfettamente nuovi in nome della moda.
Mi salvai in un complicato corner spiegando che, certo, avevano ragione, ma dalle mie parti nessuno portava la gellaba, per cui per me era una novità, e di conseguenza suscitava in me maggior interesse. Potevo aggiungere che quegli indumenti facevano forse emergere dal fondo del mio inconscio le ombre dei presepi infantili? Davvero non avrebbero potuto capire. Mi accompagnarono fin sulla porta dell'albergo e mi strinsero tutti la mano, a uno a uno, con le belle dita sottili e nervose che hanno soltanto quelle popolazioni.
Come mi piacerebbe, un giorno, avere occasione di andare ancora una volta fin laggiù, a Deir ez-Zor, sulla riva dell'Eufrate, per vedere se di sera si passeggia ancora in quel modo, e se i ragazzi sono ancora così gentili e così equamente divisi in jeans e gellabe. E poi, magari, il giorno dopo, poter proseguire per un Iraq finalmente lasciato libero di governarsi e di godere delle sue ricchezze…»