venerdì 17 febbraio 2017

Deir ez-Zor, Siria, nella morsa dell’Isis. E nessuno ne parla. Ecco come l’ho vista più di 30 anni fa


Dal mio “Strada bianca per i Monti del Cielo. Vagabondo sulla Via della Seta”
(La foto l’ho ripresa da un articolo del coraggioso giornalista Fulvio Scaglione, uno dei pochissimi a parlarne)

« Sul nastro di asfalto che continuando da Aleppo corre lungo la riva destra dell'Eufrate mi inoltrai un giorno d'estate dei primi anni Ottanta. Essendo stato letteralmente buttato fuori dall'ambasciata irachena di Roma quando avevo osato chiedere un visto, volevo comunque avvicinarmi il più possibile ai confini di quell'impenetrabile paese, se non altro per vedere Doura Europos e Mari, oltre a Rasafa, in territorio siriano. Il posto giusto dove fare tappa era ed è tuttora Deir ez-Zor. Vi trascorsi una serata bellissima.
La mia prima meta era stata Rasafa, anche scritto Resafa, Rosafa o Rusafa. Roseph per la Vulgata e Sergiopoli per i romani: la patria di San Sergio. Erano molti anni che ci volevo andare, fin da una delle mie prime visite a Istanbul e a quella che attualmente è chiamata Piccola Santa Sofia, la Chiesa dei Santi Sergio e Bacco, divenuta moschea.
Rasafa è stata una delle grandi città romane del Crescente Fertile, capitale della provincia Augusta Euphratensis, dopo la caduta di Doura Europos in mani persiane, e di ricchezza pari alla Palmira della regina Zenobia. I resti sono molto estesi ma purtroppo altrettanto poveri, anche se sfavillanti di un miracolo di frammenti di mica. Uno straordinario baluginare di specchietti tra la sabbia sotto il sole sfolgorante di Siria.
Abbagliato, capii di punto in bianco il senso di una frase che avevo letto tempo prima, coniata da Andrè Parrot, archeologo francese e primo direttore del Louvre, scopritore di Mari nel 1933: «Ciascuno ha due patrie: la sua e la Siria».
Arrivato di pomeriggio nella piacevole Deir ez-Zor e concessomi un po' di riposo, sul far della sera uscii e, fatto un giro nel bazar, andai a cena. Rinfrancato dal solito ottimo cibo siriano, mi aggirai qualche minuto per il centro che si stava facendo buio, finché mi accorsi che tutti andavano nella stessa direzione. Mi accodai.
Arrivammo a un corso d'acqua, dove la temperatura calò di colpo di diversi gradi, facendosi fresca e gradevolissima. Era l'Eufrate. Attraversato da un ponte che mi fece mancare il fiato, una replica in sedicesimo del Golden Gate di San Francisco. Piccolo piccolo ma tale e quale. Lo hanno costruito i francesi negli anni Venti, quando la Siria è stata loro affidata con la formula del mandato dopo aver scacciato verso l'Iraq il grande protetto di Lawrence d'Arabia, lo hashemita sceicco Feisal, diventato per pochissimo tempo re di Siria e poi spedito a farsi assassinare come re del neo assemblato Iraq. Uno dei più tremendi pasticci colonialisti combinati da britannici e francesi in combutta. Una polveriera che sta ardendo ancora e non smetterà probabilmente mai.
Perché i francesi avranno costruito il ponte di Deir con quella forma, invece di fare una replica in piccolo di uno dei loro? Chissà. E quanto sarà largo? Pochi metri, infatti lo si percorre soltanto a piedi. Ma nelle sere d'estate era la meta preferita di tutti gli abitanti della cittadina. Erano lì che andavano avanti e indietro, e io con loro. Che bel posto. E che straordinaria capacità hanno le popolazioni desertiche di non sprecare parole e quindi alito, e quindi umidità interna. Passeggiare in mezzo a quel mormorio e a quello svolazzare di indumenti orientali era bellissimo.
Ci misi poco a rendermi conto che la popolazione giovane, almeno quella di sesso maschile, era divisa tra modernisti e tradizionalisti. I primi in jeans, i secondi nelle loro splendide gellabe bianche o azzurre. Facevo finta di niente, ma ero perfettamente consapevole di averne alle spalle un gruppo che mi seguiva timidamente da diversi minuti. Frequentavo da abbastanza tempo quelle terre per sapere quanto isolate siano dalla cattiva coscienza internazionale, e quanta voglia abbiano i loro giovani di comunicare con lo straniero.
Visto che non osavano prendere l'iniziativa, la presi io. Arrivato circa a metà del ponte feci un improvviso dietrofront che mi mandò quasi a sbattere contro di loro. Il gruppo si aprì per accogliermi, e per un'oretta – o forse più – fui uno di loro, l'amico adulto tornato da lontano, il fratello rientrato dall'emigrazione. Conoscevano in diversi il francese. Di che cosa parlammo? Chi lo sa. Di tutto e di niente. Molti di loro reggevano per il manubrio certi biciclettoni cinesi neri che così alti non credo di averne mai visti prima (li ho rivisti poi appunto in Cina).
Vollero sapere se preferivo quelli di loro in jeans o quelli in gellaba. Ero inesorabilmente destinato a creare dispiacere a una parte di essi, per cui cercai di traccheggiare, ma non ci fu niente da fare: esigevano una risposta. Non sono mai stato capace di mentire, e poi perché farlo, visto che comunque avrei dato una risposta poco gradita a una parte di loro? Risposi onestamente che mi piacevano di più quelli in gellaba. I visi dei modernisti si fecero lunghi. Mi spiegarono in toni accorati che avevo torto, che per evolversi è indispensabile essere moderni e quindi vestirsi come ci si veste nei paesi sviluppati. Per fortuna non sapevano ancora che nei paesi sviluppati si scolorivano e stracciavano apposta indumenti perfettamente nuovi in nome della moda.
Mi salvai in un complicato corner spiegando che, certo, avevano ragione, ma dalle mie parti nessuno portava la gellaba, per cui per me era una novità, e di conseguenza suscitava in me maggior interesse. Potevo aggiungere che quegli indumenti facevano forse emergere dal fondo del mio inconscio le ombre dei presepi infantili? Davvero non avrebbero potuto capire. Mi accompagnarono fin sulla porta dell'albergo e mi strinsero tutti la mano, a uno a uno, con le belle dita sottili e nervose che hanno soltanto quelle popolazioni.
Come mi piacerebbe, un giorno, avere occasione di andare ancora una volta fin laggiù, a Deir ez-Zor, sulla riva dell'Eufrate, per vedere se di sera si passeggia ancora in quel modo, e se i ragazzi sono ancora così gentili e così equamente divisi in jeans e gellabe. E poi, magari, il giorno dopo, poter proseguire per un Iraq finalmente lasciato libero di governarsi e di godere delle sue ricchezze…»

mercoledì 15 febbraio 2017

Un'altra intervista inedita di 7 anni fa: su me e la Bocconi


19 febbraio 1964. Mi laureo alla Bocconi
Nella primavera del 2010 mi telefonò un giovane chiaramente non italiano. Mi spiegò che era uno studente straniero della Bocconi e che con altri colleghi, come lui stranieri, stavano pensando di creare una piccola rivista destinata a quella non piccola pattuglia di studenti. Aveva sentito parlare di me e della mia attività, così diversa da quelle tradizionalmente praticate dai laureati Bocconi, e mi chiese se mi andava di rispondere a qualche domanda. Lo feci di buon grado, ma non seppi più niente dell'intervista. Era stata pubblicata? Chissà. Soltanto qualche anno più tardi, nel corso di un'altra intervista, un efficiente quanto gentile addetto all'agguerrito Ufficio Stampa dell'Università mi spiegò che quel progetto non era andato a buon fine, anche (credo) perché l'intraprendente giovane era tornato in patria. Ne ho casualmente ritrovato il testo nel mio computer, mi sembra non priva di interesse, quindi la pubblico qui (scusandomi se non ricordo il nome del giovane che me l'ha fatta).

Quali sono i suoi legami con la Bocconi?
Ho studiato lì dopo la maturità al Liceo Classico A. Volta di Como, e nel febbraio 1964 mi sono laureato in Economia Politica con l famoso professor Giovanni De Maria, che ne era stato Rettore. Titolo: “Rapporti tra incivilimento e progresso economico." Che in sostanza significa: “Come il progresso economico rende (o no) più civile il mondo". 

Da quanto ha lasciato la Bocconi? Vi torna mai?
Come ho detto, l’ho lasciata nel febbraio del  1964, ma io vivo a Milano, che non è poi una città così grande, per cui ho avuto molte occasioni di tornarvi, per incontrare vecchi amici, per ascoltare conferenze o per l’inaugurazione ufficiale dell’Anno Accademico. Per un certo numero di anni, inoltre — negli Ottanta —, sono anche andato a diversi incontri dei "Laureati Bocconi", promossi dall’ALUB, l’"Associazione Laureati Università Bocconi".

Può offrirci una panoramica della sua carriera (professionale, accademica) da quando ha lasciato la Bocconi? Quali, secondo lei i momenti cruciali?
Ho lasciato la Bocconi in un momento difficile per l’economia dell’Italia, la cosiddetta “Congiuntura” della metà degli Anni Sessanta, per cui non è stato facile trovare un impiego. Per di più la mia laurea in Economia pura non era precisamente fatta per facilitarmi nel mondo degli affari, più orientato verso Tecnica Commerciale, Tecnica Industriale, Tecnica Bancaria eccetera. Di conseguenza mi è toccato prendere ciò che ho trovato, ovvero un posto di venditore-programmatore di macchine elettrocontabili (non ancora “elettroniche”, si badi bene) presso la filiale italiana dell’americana Burroughs. La parte “programmazione” era affascinante (e da lì viene il mio profondo interesse per i computer e il Web), ma la parte “vendita” non mi è mai piaciuta: sono totalmente incapace di vendere.
Sono rimasto alla Burroughs soltanto pochi mesi, dopo di che sono andato alla Nestlé. È stato un periodo molto importante della mia vita professionale: alla Nestlé ho imparato che cosa significa davvero “lavorare”, organizzare il proprio lavoro. Ma non era la vita che volevo per me: io sono vagabondo per natura, mi piace viaggiare, cambiare, e soprattutto volevo lavorare in una Casa editrice e imparare come si diventa scrittore.
Quindi, passati tre anni alla Nestlé in tre posizioni diverse (“vagabondaggi?”), sono andato alla Casa Editrice Einaudi di Torino. E 18 mesi più tardi ho “vagabondato” da lì alla Sansoni di Firenze, e finalmente, dopo altri sei anni, all Casa Editrice Longanesi, tornando a Milano.
Nel 1984, infine, ho deciso di aver imparato abbastanza sull’editoria e lo scrivere e di poter tentare di fare lo scrittore di professione. A quel punto avevo già pubblicato 3 romanzi (più un piccolo libro di poesie), e il quarto, arrivato pochi mesi più tardi, mi ha dato il momento più felice della mia vita professionale, vincendo in settembre 1985 il Premio Campiello a Venezia.
In totale* ho pubblicato 13 romanzi, 3 libri di viaggio e 1 di poesie, più altre poesie sparse in riviste letterarie e decine di interviste, recensioni e articoli di varia natura su quotidiani e periodici italiani. Oltre alle 71 traduzioni di libri di narrativa in lingua inglese (tra cui molti di Premi Nobel come I. B. Singer, Wole Soyinka, William Golding e Orhan Pamuk).

Quale pensa sia stato l’influsso della Bocconi sulla sua carriera?
È stato molto forte, perché mi ha aiutato a capire l’importanza di organizzazione e disciplina nello studio come nel lavoro professionale. Scrivere è una professione (ivi incluso molto studio): i libri non piovono dal cielo, richiedono una grande quantità di organizzazione personale, disciplina e forza di volontà.

Può metterci a parte di un bel ricordo del tempo trascorso in Bocconi?
Ne ho tanti, situazioni, amici, anche un paio di amori… ma stiamo parlando di cose avvenute quasi 50 anni fa, i ricordi si affievoliscono. Un certo particolare momento, però, non lo dimenticherò mai.
Autunno 1958, prima lezione di Ragioneria nell’Aula Notari, l’Aula Magna. Settecento matricole sedute lì. Il famoso professor Napoleone Rossi, in un silenzio dove si sarebbe potuta sentir volare una mosca, ordina: «Quelli di voi che vengono da Ragioneria (Istituto Tecnico) si alzino». Più o meno 600 giovani scattano in piedi. «Adesso quelli che vengono dal Liceo Scientifico.» Un’ottantina di ragazzi e ragazze. «E adesso quelli che vengono dal Liceo Classico.» Non eravamo più di 20.
Un’esplosione di risate, con i 600 “ragionieri” che sghignazzavano, strepitavano, irridevano fino a diventare rauchi, mentre noi, poveri 20, rimanevamo lì timidamente con il nostro retaggio di latino, greco, filosofia, storia dell’arte, uno qui, uno là…
«State zitti, stupidi», tuona il professor Napoleone Rossi rivolto ai ragionieri: «due o tre lezioni e pregherete questi pochi ragazzi del Classico di spiegarvi che cos’è veramente la “Ragioneria”.»
Un momento indimenticabile. E andò proprio così: mi fu personalmente chiesto da qualche “ragioniere” di preparare insieme i due esami di Ragioneria (oltre a quelli di Tecnica Commerciale e Industriale). Davvero molto interessante e corroborante.

Ha un messaggio per coloro che stanno provando a laurearsi quest’anno?
Siate forti e coraggiosi, seguite sempre il vostro istinto, ma lavorate, lavorate e ancora lavorate (che per adesso significa “studiate”). Molto duramente. Sempre.

È ancora in contatto con persone conosciute alla Bocconi, studenti o magari insegnanti?
Certo, mi sono fatto molti amici e sono in contatto con diversi di loro (persino su Facebook!) Anche professori, che a quei tempi erano giovanissimi: Roberto Ruozi, per esempio, che ha quasi la mia età ma che, quando io ho lasciato l’università, insegnava già Tecnica Bancaria, per poi diventare Rettore. Alcuni importanti dirigenti della Banca d’Italia, almeno un ministro (del governo Prodi), due o tre editori…

La Bocconi aveva già il suo appeal internazionale quando lei ne percorreva le aule?
Era ben conosciuta e rispettata, c’erano tra noi diversi stranieri, ma niente a che vedere con il richiamo che esercita oggi.

Se potesse tornare indietro e ripetere tutto da capo, lo farebbe?
Non si può mai dire, ma non credo: come ho detto e ripetuto, io sono un “vagabondo”, mi piace (ho bisogno di) viaggiare, sperimentare, cambiare. Ho cambiato tanti mestieri, tanti luoghi dove vivere, persino tanti modi di scrivere. Ho viaggiato in più di 40 paesi, per me il “cambiamento” è l’essenza della vita.

È mai passato "attraverso i leoni" dell’atrio?
Sì, certo. Quasi ogni giorno per quattro anni (tranne d’estate). Ero uno studente molto serio e frequentavo scrupolosamente le lezioni. A quei tempi, però, non credo esistesse l’espressione “passare attraverso i leoni”, o comunque non me la ricordo. Ci toccava semplicemente passare di lì se volevamo andare a lezione. E non frequentare le lezioni era il modo migliore per rischiare di non laurearsi.

* Al momento dell’intervista, primavera 2010.

sabato 11 febbraio 2017

Una mia intervista inedita (di 7 anni fa) sul Lago di Como

Il ramo di Como del Lario visto dalla Valfresca
(tortuosa salita tra la città e San Fermo)

Nella primavera del 2010 la casa editrice che pubblicava i miei libri di viaggio mi ha chiesto se mi andava di rilasciare un’intervista sul Lago di Como per Il Giornale.  Non so da che cosa fosse motivata la richiesta, che mi ha abbastanza stupito, dati certi miei antichi rapporti tempestosi con il quotidiano cui avevo collaborato intensamente sotto la direzione del grande Montanelli. Una gentile signora di cui non ricordo il nome mi ha mandato le domande e io ho disciplinatamente risposto. Come sospettavo, l’intervista non è mai uscita, né mi è mai stato spiegato il motivo. Eh, eh. L’ho trovata poco fa nelle ordinatissime caverne del mio Mac, e la pubblico qui, per l’inguaribile amore del mio Lago.

Lei è pressoché cresciuto sulle sponde del lago di Como. Un luogo che dice di aver ‘goduto sfrenatamente’ da adolescente. Come era il lago agli occhi di un adolescente?

Io sono cresciuto lì, dai 4 ai 19 anni. E il Lago rappresentava la vacanza, ovvero la libertà. Con i miei compagni più cari del Liceo Volta avevamo l'usanza, alla fine dell'anno scolastico, di sporgerci sopra la rientranza tra la Gelateria Ceccato e la Stazione Nord per gettare in acqua quaderni e diari vecchi. Una volta siamo dovuti scappare a gambe levate, inseguiti da uno scrupoloso vigile che voleva multarci. Per fortuna correvamo più forte di lui. A quei tempi le vacanze si facevano così: l'acqua era ancora praticabilissima, al largo davanti a Villa d'Este mi è più volte capitato di berla. Si nuotava in uno dei lidi, si usciva in barca a remi o a vela, certe fortunate volte persino con una fanciulla, protetta dal casto scafandro di uno dei costumi da bagno di allora, in ghisa impenetrabile. Bellissima vita. Semplice, educata, allegra, onesta.

In genere al lago si associa una dimensione un po’ rarefatta, quasi decadente. E’ un luogo comune?

Non è un luogo comune. A dargli questo tono è anzitutto la nebbiolina che lievita quasi immancabilmente dall'acqua. L'echeggiare di tenebrose sirene. Il sentore un pochino di aldilà che accarezza le narici…

Quanto di quelle atmosfere l’hanno accompagnata negli anni successivi? E quanto quei paesaggi sono entrati nella sua scrittura?

Mi hanno accompagnato sempre. Il panorama più bello del mondo, per me sarà sempre quello del Lago di Como che si vede da certi punti della Valfresca, la strada vecchia per San Fermo. Una volta era quello che si godeva dalle gallerie della provinciale, ma poi l'hanno massacrato con l'autostrada. Molta della mia narrativa è ambientata sul lago, anche se magari con nomi di luoghi artefatti.

Quali i luoghi, gli scorci lacustri che meglio raccontano quel periodo?

Per quanto possano piacere ai russi o alle star di Hollywood, temo siano diventati una cosa molto diversa. D'altra parte i principi Trubetzkoy sono arrivati un bel po' prima. E anche le famose "Regine" da cui il lago ha derivato il suo soprannome. Ma ancora adesso attraversare il lago in traghetto da Cadenabbia a Bellagio (o viceversa) suscita una straordinaria emozione. O vedere il ramo di Como e quasi insieme quello di Lecco da certe fortunatissime zone sopra il Ghisallo…

Dei sapori e dei profumi di quella zona, quali lo descrivono meglio?

Quanto a sapori non saprei dire. Purtroppo non ricordo più come fossero i decantati piatti del Cotoletta di quei tempi o dell'allora celebrato Ristorante Villa Geno, o del Piazzolo. I profumi, invece, mi sembra siano stati sempre un po' riservati, molto in consonanza con il carattere dei comensi, sempre pudichi, restii a svelarsi (salvo magari concedersi outing clamorosi una volta in libertà a Parigi o Londra o Stoccolma o New York…)

Natura e arte o meglio architettura possono essere gli estremi che meglio racchiudono il lago?

Arte e architettura forse no, tale è lo strapotere locale della natura.

Si può raccontare letterariamente questo specchio d’acqua?

Io l'ho fatto più volte, in almeno cinque romanzi. E non escludo di farlo ancora: le ambientazioni sono perfette, già pronte per essere applicate a sviluppi narrativi.

Cinque aggettivi per tratteggiare il lago?

Vediamo: malinconico, riflessivo, solitario, sereno. Evito "solare" perché ormai lo si applica persino alla Befana.