martedì 28 marzo 2017

Il Superfusto. Un mio racconto di 21 anni fa

Mi è tornato in mente qualche giorno fa…

«Si guardò nello specchio a figura intera, si girò di profilo. Una colonna scolpita nel bronzo. Congiunse i pugni e li strinse davanti al bacino perché i pettorali risaltassero in tutto il loro rutilante splendore. Che maschio. Labbra tumide, sguardo corrucciato. Si girò di tre quarti per vedersi meglio. Che potenza. Il labbro superiore non riuscì a rimanere teso e si aprì in un sorriso senza pietà. Chiuse gli occhi. Nella mente gli scorsero come in technicolor le immagini degli sguardi adoranti che, in palestra, lo seguivano passo per passo, attimo per attimo, gesto per gesto, quando entrava nella sala di pesi. Vide il suo corpo poderoso allungarsi sulla panca facendola scricchiolare, le mani salire al doppio sostegno del bilanciere, chiudersi a pugno alle due estremità della sbarra. Gli parve di sentire la goccia di sudore che a quel punto gli imperlava regolarmente la fossetta verticale tra la scultorea linea del naso e il perfetto doppio arco carnoso delle labbra. Anche quella minuscola, argentea goccia di sudore — lo sapeva perfettamente —, era scrutata in un silenzio religioso da decine di sguardi reverenti. Avessero potuto, l’avrebbero raccolta come una reliquia.

«Giù gli immensi pesi sui pilastri torniti delle braccia. Due colonne del Partenone. Un ansito, quasi un grido. Ed ecco i due blocchi di ferro perfettamente bilanciati nell’aria. Su e giù, su e giù, un numero di volte che nessuno era mai riuscito non dicasi a pareggiare ma nemmeno ad avvicinare. Rimetteva il bilanciere nei due ganci, si raddrizzava di scatto, scendeva dalla panca con una mezza piroetta, elastico come un giaguaro, leggero come un puma. Avessero potuto farlo in libertà, non fossero stati annichiliti dalla sua apollinea presenza, dall’acre sentore di maschio che emanava la sua pelle, sapeva che i miseri spettatori della scena lo avrebbero gratificato di un’acclamazione estatica.

«Tornò ad aprire gli occhi, abbassò lo sguardo al bacino, alla cintura del sospensorio, al sottostante rigonfio. Ah! Quel rigonfio! Un maglio. Quante frequentatrici della palestra avrebbero voluto impadronirsene, farlo proprio, ingerirlo, introiettarlo nel proprio corpo, amarlo, farsene lacerare, maltrattare fino a gridare di passione e dolore, fino a piangere. E gli uomini, indecenti molluschi! Credevano forse che non vedesse, che non avvertisse addirittura fisicamente sulla nuca il viscido ardore dei loro sguardi quando, liberatosi con un calcio dell’indumento, incedeva nudo, con il passo di un gladiatore imperiale, verso la sauna. Era Spartaco, il dominatore indiscusso di quell’ambiente di aspiranti uomini, in cui l’unico vero maschio era lui. Per un solo attimo di attenzione, per il contatto di un secondo, per un millimetro quadrato della sua pelle, sarebbero stati capaci di dare la vita.

«Lo sapeva benissimo: quando si accosciava a fare qualche flessione e poi si tendeva come una molla nel gesto simulato della partenza dai blocchi, ce la mettevano tutta, saltellando e ingobbendosi in esercizi di stretching, tanto improbabili da essere ridicoli, per riuscire a mettersi alle sue spalle. Guardavano, poveretti, la linea monumentale delle sue natiche, in tutto e per tutto degne dei Bronzi di Riace, tutti insieme. Quando li sentiva lì riuniti alle sue spalle come uno sciame di vespe ronzanti e stillanti bava, si alzava di scatto e si allontanava senza una parola. Lo spettacolo è finito, vermi.

«Li lasciava così, annichiliti, orbati della sua catartica presenza, desolati, colpiti da una crudeltà ineluttabile. Poveretti. Ma ormai avevano imparato a conoscerlo. Il più duro, il più crudele di tutti. Com’era cattivo! Da avere paura di se stesso. Ancora una volta il tumidore delle labbra si aprì in un sorriso spietato. Sì, era cattivo, capace di fare male anche soltanto con lo sguardo. Di più, con la sua semplice presenza. Da sempre, fin da piccolissimo, dai primi giorni della vita, dalla nascita. Ne sapeva qualcosa la sua mamma. Quanto doveva averla fatta soffrire, in quell’ora fatidica. Quanto male doveva averle fatto.

«"Mammina", mormorò, sentendosi riempire di lacrime brucianti gli occhi arrossati dalla febbre del fieno. "Perdonami", aggiunse con un soffio di voce. Infilatosi precipitosamente nel lettino a una piazza, si rannicchiò in posizione fetale sotto la trapunta pesante e si infilò il pollice tra le labbra, mettendosi a succhiarlo rumorosamente, slurp, slurp. Che freddo faceva sempre in questo mondo angosciante, così lontano dalla protezione del grembo materno. Allungata la mano libera, prese dal cassetto del comodino la cuffia di lana morbida, posata accanto ai Kleenex, e se la infilò in testa, calandosela bene sulla fronte.

«Un brutto mondo astioso, pieno di sinusiti e reumatismi. Dappertutto, al collo, alla schiena, alle braccia, alle gambe. Eh, be’, sì, un giorno o l’altro doveva ricominciare ad andare in palestra. E ridessero pure sotto quei baffoni da macho, gli anabolizzati, sghignazzassero della sua calvizie totale, degli occhiali a culo di bicchiere, del torace cavo, della pancia a panettone, delle chiappe a sacchetto, delle braccia da ranocchio, delle gambe da ragno, del suo metro e sessanta scarso con i tacchi. Ci fosse stata lì la sua mamma, come li avrebbe messi a posto! "Mammina", mormorò di nuovo, rasserenato. Che pollice buono gli aveva fatto. Slurp, slurp...»

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