mercoledì 15 febbraio 2017

Un'altra intervista inedita di 7 anni fa: su me e la Bocconi


19 febbraio 1964. Mi laureo alla Bocconi
Nella primavera del 2010 mi telefonò un giovane chiaramente non italiano. Mi spiegò che era uno studente straniero della Bocconi e che con altri colleghi, come lui stranieri, stavano pensando di creare una piccola rivista destinata a quella non piccola pattuglia di studenti. Aveva sentito parlare di me e della mia attività, così diversa da quelle tradizionalmente praticate dai laureati Bocconi, e mi chiese se mi andava di rispondere a qualche domanda. Lo feci di buon grado, ma non seppi più niente dell'intervista. Era stata pubblicata? Chissà. Soltanto qualche anno più tardi, nel corso di un'altra intervista, un efficiente quanto gentile addetto all'agguerrito Ufficio Stampa dell'Università mi spiegò che quel progetto non era andato a buon fine, anche (credo) perché l'intraprendente giovane era tornato in patria. Ne ho casualmente ritrovato il testo nel mio computer, mi sembra non priva di interesse, quindi la pubblico qui (scusandomi se non ricordo il nome del giovane che me l'ha fatta).

Quali sono i suoi legami con la Bocconi?
Ho studiato lì dopo la maturità al Liceo Classico A. Volta di Como, e nel febbraio 1964 mi sono laureato in Economia Politica con l famoso professor Giovanni De Maria, che ne era stato Rettore. Titolo: “Rapporti tra incivilimento e progresso economico." Che in sostanza significa: “Come il progresso economico rende (o no) più civile il mondo". 

Da quanto ha lasciato la Bocconi? Vi torna mai?
Come ho detto, l’ho lasciata nel febbraio del  1964, ma io vivo a Milano, che non è poi una città così grande, per cui ho avuto molte occasioni di tornarvi, per incontrare vecchi amici, per ascoltare conferenze o per l’inaugurazione ufficiale dell’Anno Accademico. Per un certo numero di anni, inoltre — negli Ottanta —, sono anche andato a diversi incontri dei "Laureati Bocconi", promossi dall’ALUB, l’"Associazione Laureati Università Bocconi".

Può offrirci una panoramica della sua carriera (professionale, accademica) da quando ha lasciato la Bocconi? Quali, secondo lei i momenti cruciali?
Ho lasciato la Bocconi in un momento difficile per l’economia dell’Italia, la cosiddetta “Congiuntura” della metà degli Anni Sessanta, per cui non è stato facile trovare un impiego. Per di più la mia laurea in Economia pura non era precisamente fatta per facilitarmi nel mondo degli affari, più orientato verso Tecnica Commerciale, Tecnica Industriale, Tecnica Bancaria eccetera. Di conseguenza mi è toccato prendere ciò che ho trovato, ovvero un posto di venditore-programmatore di macchine elettrocontabili (non ancora “elettroniche”, si badi bene) presso la filiale italiana dell’americana Burroughs. La parte “programmazione” era affascinante (e da lì viene il mio profondo interesse per i computer e il Web), ma la parte “vendita” non mi è mai piaciuta: sono totalmente incapace di vendere.
Sono rimasto alla Burroughs soltanto pochi mesi, dopo di che sono andato alla Nestlé. È stato un periodo molto importante della mia vita professionale: alla Nestlé ho imparato che cosa significa davvero “lavorare”, organizzare il proprio lavoro. Ma non era la vita che volevo per me: io sono vagabondo per natura, mi piace viaggiare, cambiare, e soprattutto volevo lavorare in una Casa editrice e imparare come si diventa scrittore.
Quindi, passati tre anni alla Nestlé in tre posizioni diverse (“vagabondaggi?”), sono andato alla Casa Editrice Einaudi di Torino. E 18 mesi più tardi ho “vagabondato” da lì alla Sansoni di Firenze, e finalmente, dopo altri sei anni, all Casa Editrice Longanesi, tornando a Milano.
Nel 1984, infine, ho deciso di aver imparato abbastanza sull’editoria e lo scrivere e di poter tentare di fare lo scrittore di professione. A quel punto avevo già pubblicato 3 romanzi (più un piccolo libro di poesie), e il quarto, arrivato pochi mesi più tardi, mi ha dato il momento più felice della mia vita professionale, vincendo in settembre 1985 il Premio Campiello a Venezia.
In totale* ho pubblicato 13 romanzi, 3 libri di viaggio e 1 di poesie, più altre poesie sparse in riviste letterarie e decine di interviste, recensioni e articoli di varia natura su quotidiani e periodici italiani. Oltre alle 71 traduzioni di libri di narrativa in lingua inglese (tra cui molti di Premi Nobel come I. B. Singer, Wole Soyinka, William Golding e Orhan Pamuk).

Quale pensa sia stato l’influsso della Bocconi sulla sua carriera?
È stato molto forte, perché mi ha aiutato a capire l’importanza di organizzazione e disciplina nello studio come nel lavoro professionale. Scrivere è una professione (ivi incluso molto studio): i libri non piovono dal cielo, richiedono una grande quantità di organizzazione personale, disciplina e forza di volontà.

Può metterci a parte di un bel ricordo del tempo trascorso in Bocconi?
Ne ho tanti, situazioni, amici, anche un paio di amori… ma stiamo parlando di cose avvenute quasi 50 anni fa, i ricordi si affievoliscono. Un certo particolare momento, però, non lo dimenticherò mai.
Autunno 1958, prima lezione di Ragioneria nell’Aula Notari, l’Aula Magna. Settecento matricole sedute lì. Il famoso professor Napoleone Rossi, in un silenzio dove si sarebbe potuta sentir volare una mosca, ordina: «Quelli di voi che vengono da Ragioneria (Istituto Tecnico) si alzino». Più o meno 600 giovani scattano in piedi. «Adesso quelli che vengono dal Liceo Scientifico.» Un’ottantina di ragazzi e ragazze. «E adesso quelli che vengono dal Liceo Classico.» Non eravamo più di 20.
Un’esplosione di risate, con i 600 “ragionieri” che sghignazzavano, strepitavano, irridevano fino a diventare rauchi, mentre noi, poveri 20, rimanevamo lì timidamente con il nostro retaggio di latino, greco, filosofia, storia dell’arte, uno qui, uno là…
«State zitti, stupidi», tuona il professor Napoleone Rossi rivolto ai ragionieri: «due o tre lezioni e pregherete questi pochi ragazzi del Classico di spiegarvi che cos’è veramente la “Ragioneria”.»
Un momento indimenticabile. E andò proprio così: mi fu personalmente chiesto da qualche “ragioniere” di preparare insieme i due esami di Ragioneria (oltre a quelli di Tecnica Commerciale e Industriale). Davvero molto interessante e corroborante.

Ha un messaggio per coloro che stanno provando a laurearsi quest’anno?
Siate forti e coraggiosi, seguite sempre il vostro istinto, ma lavorate, lavorate e ancora lavorate (che per adesso significa “studiate”). Molto duramente. Sempre.

È ancora in contatto con persone conosciute alla Bocconi, studenti o magari insegnanti?
Certo, mi sono fatto molti amici e sono in contatto con diversi di loro (persino su Facebook!) Anche professori, che a quei tempi erano giovanissimi: Roberto Ruozi, per esempio, che ha quasi la mia età ma che, quando io ho lasciato l’università, insegnava già Tecnica Bancaria, per poi diventare Rettore. Alcuni importanti dirigenti della Banca d’Italia, almeno un ministro (del governo Prodi), due o tre editori…

La Bocconi aveva già il suo appeal internazionale quando lei ne percorreva le aule?
Era ben conosciuta e rispettata, c’erano tra noi diversi stranieri, ma niente a che vedere con il richiamo che esercita oggi.

Se potesse tornare indietro e ripetere tutto da capo, lo farebbe?
Non si può mai dire, ma non credo: come ho detto e ripetuto, io sono un “vagabondo”, mi piace (ho bisogno di) viaggiare, sperimentare, cambiare. Ho cambiato tanti mestieri, tanti luoghi dove vivere, persino tanti modi di scrivere. Ho viaggiato in più di 40 paesi, per me il “cambiamento” è l’essenza della vita.

È mai passato "attraverso i leoni" dell’atrio?
Sì, certo. Quasi ogni giorno per quattro anni (tranne d’estate). Ero uno studente molto serio e frequentavo scrupolosamente le lezioni. A quei tempi, però, non credo esistesse l’espressione “passare attraverso i leoni”, o comunque non me la ricordo. Ci toccava semplicemente passare di lì se volevamo andare a lezione. E non frequentare le lezioni era il modo migliore per rischiare di non laurearsi.

* Al momento dell’intervista, primavera 2010.

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